Dopo questo periodo di pausa riprendiamo il cammino storico percorso dall’astronomia, ricollegandoci all’ultimo articolo del genere, in cui ci eravamo lasciati con la misurazione delle dimensioni della nostra galassia (le cosiddette distanze astrali) e i vari tentativi fatti in merito; perciò vedremo quali passi avanti si sono fatti in tal senso.
Il primo degno di nota fu la scoperta di un nuovo metodo di misura delle distanze, che si avvaleva di alcune stelle la cui luminosità era variabile. Questo capitolo dell’astronomia comincia con una stella molto luminosa, Delta Cephei, nella costellazione di Cefeo. Uno studio approfondito mostrò che la sua luminosità aveva un ciclo di variabilità: dallo stadio di minima luminosità la stella passava in poco tempo a una luminosità doppia, per poi lentamente oscurarsi fino a tornare allo stato iniziale; questo ciclo si ripeteva di continuo, con la massima regolarità. Gli astronomi trovarono molte altre stelle che si comportavano in questo modo e le chiamarono, in onore di Delta Cephei, variabili cefeidi o semplicemente cefeidi.
I periodi delle cefeidi (cioè gli intervalli di tempo tra un minimo di luminosità e il successivo) variano da meno di un giorno a quasi due mesi. Il periodo di Delta Cephei è di 5,366 giorni, mentre la cefeide più vicina di tutte (la Stella Polare, niente di meno) ha un periodo di 3,97 giorni. (Tuttavia, la Stella Polare presenta solo una modesta variazione di luminosità, non osservabile a occhio nudo.) Le cefeidi sono importanti per gli astronomi per una ragione che richiede una breve digressione.
Fin dai tempi di Ipparco si misurava la luminosità di una stella tramite un parametro chiamato magnitudine secondo un sistema ideato dallo stesso Ipparco: più una stella è luminosa, minore è la magnitudine. Ipparco definì le venti stelle più luminose come stelle di prima magnitudine (o di prima grandezza), mentre quelle un po’ più deboli le chiamò di seconda magnitudine; seguivano la terza, la quarta e la quinta, fino alle stelle più deboli, quelle appena visibili, che erano di sesta magnitudine. Nei tempi moderni – nel 1856, per l’esattezza – il concetto introdotto da Ipparco fu trasformato in un concetto quantitativo per merito dell’astronomo Norman Robert Pogson, il quale mostrò che la stella media di prima magnitudine era circa 100 volte più luminosa della stella media di sesta magnitudine. Se si stabilisce che un intervallo di cinque magnitudini equivale a un rapporto di 100 in luminosità, il rapporto per 1 magnitudine deve essere pari a 2,512. Una stella di magnitudine 4 è quindi 2,512 volte più luminosa di una stella di magnitudine 5 e 2,512 moltiplicato per 2,512 volte, cioè circa 6,3 volte, più luminosa di una stella di magnitudine 6. Tra le stelle, 61 Cygni è una stella debole con una magnitudine 5,21 (i moderni metodi astronomici consentono di valutare il decimo e in qualche caso perfino il centesimo di magnitudine). Capella è una stella luminosa, con una magnitudine di 0,08. E la
misurazione procede fino a luminosità ancora superiori, che sono designate come magnitudine zero, oltre la quale si ricorre ai numeri negativi Alpha Centauri è ancora più luminosa, con una magnitudine di −0,27. Sirio, la stella più luminosa del cielo, ha una magnitudine di -1,46; il pianeta Venere raggiunge la magnitudine di -4,6, la luna piena di -12,747, il sole di -26,8.
Queste sono le magnitudini apparenti delle stelle, così come le vediamo – non già le loro luminosità assolute, indipendenti dalla distanza. Ma se conosciamo la distanza di una stella e la sua magnitudine apparente, possiamo calcolare la sua luminosità reale. Gli astronomi basano la scala delle magnitudini assolute sulla luminosità a una distanza standard, che è stata stabilita pari a dieci parsec, ossia 32,6 anni luce. (Il parsec è la distanza a cui una stella presenta una parallasse di 1 secondo di arco, ed è pari a poco più di 30 trilioni di chilometri, ossia a 3,26 anni luce, non un tempo misurato nel percorrere la tratta iperspaziale di Kessel Run, come in Episodio IV) Anche se Capella appare meno brillante di Alpha Centauri e di Sirio, in realtà è un’emittente di luce assai più potente di loro; solo che si trova molto più lontana. Se fossero tutte e tre alla distanza standard Capella sarebbe di gran lunga la più luminosa. La sua magnitudine assoluta è −0,49, mentre quelle di Sirio e di Alpha Centauri sono rispettivamente 1,40 e 4,38. Il nostro sole ha una luminosità che eguaglia appena quella di Alpha Centauri, con la sua magnitudine assoluta di 4,83. Non è che una comune stella, di media grandezza.
Torniamo alle cefeidi. Nel 1912 Henrietta Leavitt, un’astronoma dell’Osservatorio di Harvard, stava studiando la più piccola delle nubi di Magellano – due enormi sistemi stellari nell’emisfero australe che prendono il nome dal celebre navigatore, perché furono osservate per la prima volta durante la sua circumnavigazione del globo. Tra le stelle della piccola nube di Magellano, Henrietta Leavitt scoprì venticinque cefeidi, di ciascuna delle quali registrò il periodo di variazione, trovando, con sua stessa sorpresa, che più il periodo era lungo, più la stella era luminosa. Dato che questo non si verifica per le variabili cefeidi più prossime a noi, perché dovrebbe verificarsi nella piccola nube di Magellano? Nei nostri dintorni conosciamo soltanto le magnitudini apparenti delle cefeidi; non conoscendo né la loro distanza né la loro luminosità assoluta, non abbiamo modo di stabilire una relazione tra il periodo di una stella e la sua luminosità. Invece, nella piccola nube di Magellano, tutte le stelle sono in pratica circa alla stessa distanza da noi, data la grande lontananza della nube. È come se una persona a New York volesse calcolare la propria distanza da ogni persona che si trova a Chicago: arriverebbe alla conclusione che tutti gli abitanti di Chicago hanno circa la stessa distanza da lei, dato che qualche chilometro su più di mille non fa differenza. Analogamente, una stella che si trovi all’estremità più lontana della nube non è significativamente più lontana di una stella che si trovi all’estremità più vicina. Nel caso delle stelle della piccola nube di Magellano, quindi, si potrebbe prendere la loro magnitudine apparente come misura relativa della loro magnitudine assoluta. Così la Leavitt poté considerare come reale la relazione rilevata: cioè, il periodo delle variabili cefeidi aumenta regolarmente con l’aumentare della magnitudine assoluta. Fu così possibile stabilire una curva periodo-luminosità – un grafico che mostra quale periodo debba avere una cefeide di una data magnitudine assoluta, e, reciprocamente, quale magnitudine assoluta debba avere una cefeide di un dato periodo.
Nell’ipotesi che le cefeidi di tutto l’universo si comportino come quelle della piccola nube di Magellano (assunzione ragionevole), gli astronomi disporrebbero di una scala relativa per misurare le distanze, almeno fin dove è possibile scorgere le cefeidi con i telescopi migliori. Osservate due cefeidi aventi periodo uguale, si potrebbe supporre l’uguaglianza delle loro magnitudini assolute. Se, per esempio, la cefeide A apparisse quattro volte più luminosa della cefeide B, quest’ultima avrebbe una distanza doppia da noi; in questo modo sarebbe possibile riportare in un grafico in scala le distanze relative delle cefeidi osservabili. Pertanto, se si potesse determinare la distanza effettiva anche di una sola di queste cefeidi, diverrebbero note le distanze di tutte le altre.
Sfortunatamente, anche la più vicina delle cefeidi, la Stella Polare, si trova a centinaia di anni luce da noi, di gran lunga troppo lontana per poterne misurare la distanza in base alla parallasse. Gli astronomi dovettero ricorrere a metodi meno diretti: un indizio utilizzabile veniva dal moto proprio, perché, in media, più una stella è distante, minore è il suo moto proprio. (Si rammenti che Bessel aveva stabilito che 61 Cygni era relativamente vicina perché aveva un grande moto proprio.) Sono stati usati vari sistemi per determinare il moto proprio di gruppi di stelle, con l’aiuto di metodi statistici.
Era una procedura complicata, ma i risultati fornirono la distanza approssimativa di vari gruppi di stelle che contenevano delle cefeidi. Dalle distanze e dalle magnitudini apparenti di queste ultime, si poterono determinare le magnitudini assolute, confrontandole poi con i periodi. Così, nel 1913 l’astronomo danese Ejnar Hertzsprung stabilì che una cefeide di magnitudine assoluta -2,3 aveva un periodo di 6,6 giorni. In base a questo risultato e usando la curva periodo-luminosità della Leavitt, egli riuscì a determinare la magnitudine assoluta di tutte le cefeidi. (Incidentalmente, risultò che in genere esse sono stelle grandi e luminose, molto più luminose del nostro sole. La loro variazione di luminosità è probabilmente dovuta alle loro pulsazioni: sembra che queste stelle si espandano e si contraggano in continuazione, quasi respirassero, inspirando ed espirando profondamente.) Pochi anni dopo, l’astronomo americano Harlow Shapley ripeté la ricerca e arrivò alla conclusione che una cefeide di magnitudine assoluta -2,3 aveva un periodo di 5,96 giorni. L’accordo era sufficiente per consentire agli astronomi di procedere: ormai avevano il loro metro.
Da questo momento dunque si apre all’uomo un’opportunità insperata: “misurare” l’infinitamente grande!
Per la prima volta, l’essere umano ha la possibilità di confrontarsi con ciò che lo circonda e farsene un’idea abbastanza precisa: le immensità del cosmo sono davvero così grandi? La risposta non lasciò dubbi in merito, ma ne pose di nuovi e più ardui da risolvere che richiesero, per essere superati, ulteriori sforzi in termini di meticolosi studi ed osservazioni insieme a grandi capacità di elaborare ed immaginare le possibili soluzioni.
Questo è ciò che vedremo nel prossimo articolo del genere. Intanto potete leggere quello precedente.
Le Fonti:
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The Asimov's New Guide to Science, in Italia col titolo Il Libro di Fisica, Arnoldo Mondadori Editore, 2000, ISBN 88-04-41445-6, per i dati storici;
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Wikipedia, l'enciclopedia libera, per i dati tecnici.
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