Blade Runner 2049: recensione no spoiler

Negli anni in cui abbiamo assistito a rilanci più o meno riusciti di gloriosi brand del passato (ad esempio Ghostbusters, Jurassic Park ma per certi versi anche Star Wars e Star Trek), la notizia dell’uscita di Blade Runner 2049 ci ha dato molto da pensare: possibile che non ci siano in giro idee nuove? E se ci “rovinassero” anche questo cult?

Insomma, i dubbi erano molti e l’unico modo per fugarli definitivamente era andarlo a vedere al cinema. Noi del Bosone, da appassionati, lo abbiamo fatto e questa è la nostra recensione, rigorosamente spoiler free, quindi utile sia a chi ha già visto il film e sia per quanti vogliono farsi un’idea per capire se è il caso di andare a vederlo.

La trama di Blade Runner 2049

Locandina blade runner 2049Tranquilli, anche qui non c’è spoiler, e mal che vada vi diremo solo quello che appare scritto nel primo minuto di film.

Infatti, la pellicola si apre con un antefatto scritto: siamo nel 2049 e i “vecchi” replicanti, ritenuti poco gestibili – ricorderete i casini creati da Roy Betty nel primo film, per esempio – sono stati vietati dalla legge e questo ha causato il fallimento della Tyrell Corporation, in seguito acquisita da tale Neander Wallace che ha rilanciato la produzione rendendo i replicanti più docili.

In questo modo, le colonie extramondo hanno potuto prosperare ma c’è un problema: alcuni dei vecchi “lavori in pelle” sono ancora in circolazione e devono essere “ritirati”.

Quelli che portano avanti questo sporco lavoro vengono ancora chiamati Blade Runner.

Fra questi c’è l’Agente K, interpretato da Ryan Gosling, che durante una missione si imbatte in una scoperta potenzialmente sconcertante e il cui segreto spaventa alcuni e fa gola ad altri…

Blade Runner 2049: un sequel riuscito

Fin qui l’incipit, ora veniamo ad una analisi un po’più “cicciosa”. Cominciamo dai personaggi e dai loro interpreti. Qualcuno nutriva il rischio che Ryan Gosling fosse il belloccio usato solo come specchietto per le allodole utile ad acchiappare pubblico, ma tutto sommato tira fuori un’interpretazione molto adatta al genere di personaggio che si trova a trasportare su schermo: lui è un Blade Runner “particolare” e quindi non doveva fare – e non ha fatto – la brutta copia del Deckard del primo film.
Proprio Deckard ci ha “delusi” un po’: è vero che sono passati molti anni e che nel frattempo ha vissuto tutta una serie di esperienze, ma non si rivede quasi mai il cinico guascone dell’originale. Sembra un personaggio stanco e viene il dubbio che sia stato messo lì più per avere un collegamento diretto fra i due film che per offrire qualcosa in più a questa pellicola – vedendo il film si ha la sensazione che Deckard si sarebbe potuto evitare con pochi accorgimenti nella sceneggiatura; insomma, il suo ruolo è poco attivo e poco influente, anche se decisamente emozionale. Quanto ad Harrison Ford, sembra più vicino a interpretare Han Solo che Deckard, ma fa il suo onesto lavoro.
Completano il cast principale: Jared Leto – nel ruolo di Wallace, in un tipo di cattivo affascinante ma che sta diventando sempre più un cliché, anche se interpretato con la consueta bravura; Ana De Armas – Joi, una intelligenza artificiale olografica molto suggestiva; e Sylvia Hoeks – Luv, assistente e braccio operativo di Wallace. In generale la prova degli attori è molto buona, e stupisce quella di Dave Bautista (sì, il wrestler!) che nella sua breve apparizione non si rinchiude nel solito imprinting di “bestia tutto muscoli che pensa solo a picchiare”.

Quando però diciamo che Blade Runner 2049 è un sequel riuscito ci riferiamo soprattutto al lato tecnico e narrativo della produzione. Secondo noi, il film riesce in tutto quello in cui Episodio VII aveva “fallito“: ovviamente seguiamo le vicende di un Blade Runner, quindi la ricerca del replicante rimane il motore narrativo della storia; storia che però non ricalca e non scimmiotta quella dell’originale, del quale però ripropone stilemi visivi e narrativi, distaccandosi però dalla cadenza del noir del primo film per assomigliare di più a un thriller moderno.

Una scena di Blade Runner 2049: il netto chiaroscuro restituisce lo stile visivo dell’originale.

Alcune scene ripropongono i netti contrasti di luce che avevano caratterizzato l’estetica visiva di Blade Runner, che insieme a una musica tensiva con “venature” elettroniche e “metalliche” riconsegna le atmosfere del film precedente senza però ricalcarlo pedissequamente nelle ambientazioni. Ci spieghiamo meglio, continuando i paragone con Episodio VII per una maggiore chiarezza: se Jakku era sostanzialmente Tatooine con un altro nome, Blade Runner 2049 non cade nella facile tentazione di riproporre per l’intero film le ambientazioni piovose e notturne che avevano caratterizzato il capitolo precedente; vi sono questi passaggi – come è giusto che sia visto che ci troviamo nella stessa città – ma si vivono molte altre situazioni.

Scena nel deserto: Blade Runner 2049 propone cose nuove ma con lo stile visivo dei forti contrasti del primo film.

La musica mantiene un registro simile ma sparisce quasi completamente il sax che accompagnava Deckard: scelta azzeccata visto che, come dicevamo prima, si è passati dal noir al thriller.

Probabilmente la scelta di Ridley Scott di affidare la regia Villeneuve invece di mettersi lui dietro la macchina da presa si spiega così, ed ha pagato: è un Blade Runner dei giorni nostri, ma si respira la stessa atmosfera del cult degli anni ’80.

Le atmosfere cittadine dell’originale e del sequel a confronto.

In conclusione: Balde Runner 2049 probabilmente non entrerà nella storia del cinema come il suo predecessore – la posizione di vantaggio dell’originale è troppo netta per pensare che questa pellicola possa avere un impatto culturale equivalente – ma si tratta sicuramente di un sequel ben riuscito.

Mentre molti altri brand si sono rilanciati con prodotti che puntavano troppo facilmente sul nome e sull’emozione, Blade Runner risorge con un film che, benché difficilmente comparabile col precedente, starebbe in piedi anche da solo. A questo aggiunge quelle citazioni esplicite che mandano in solluccheri il fan di vecchia data. Insomma, noi vi consigliamo di vederlo, e di godervelo.

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Mario Iaquinta

Nato da sua madre “dritto pe’ dritto” circa un quarto di secolo fa, passa i suoi anni a maledire il comunissimo nome che ha ricevuto in dote. Tuttavia, ringrazia il cielo di non avere Rossi come cognome, altrimenti la sua firma apparirebbe in ogni pubblicità dell’8×1000. Dopo questa epifania impara a leggere e scrivere e con queste attività riempie i suoi giorni, legge cose serie ma scrive fesserie: le sue storie e i suoi articoli sono la migliore dimostrazione di ciò. In tutto questo trova anche il tempo di parlare al microfono di una web-radio per potersi spacciare per persona intelligente senza però far vedere la sua faccia. Il soprannome “Gomez” è il regalo di un amico, nomignolo nato il giorno in cui decise di farsi crescere dei ridicoli baffetti. Ridicoli, certo, ma anche tremendamente sexy, if you know what I mean…
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