Spesso, quando si utilizza un sistema di realtà virtuale, ci si trova a subire gli effetti di una nausea molto simile a quella data dal mal di mare o dal mal d’auto, che risponde al nome di Cybersickness (letteralmente, cybermalattia). Questo effetto sta venendo accuratamente studiato e dei ricercatori si sono fatti un’idea della motivazione per cui avviene e di quali possano essere le strategie per cercare, in futuro, di minimizzarla.
Into the Cybersickness
La popolarità dei visori VR sta incrementando molto rapidamente, da quando questa tecnologia è sbarcata nel mondo dei videogames. Ma non è solo in ambito ludico che la realtà virtuale ha delle interessanti applicazioni: è un ottimo sistema anche per fini educativi e può perfino essere utilizzata per la riabilitazione medica, dal momento che è in grado di immergere chi ne usufruisce in un ambiente creato ad hoc.
Il problema principale di questo genere di strumenti è che tendono a causare questa sorta di nausea veramente disturbante, che ricorda moltissimo il mal d’auto (e che come vedremo è probabilmente causata da un sistema molto simile), e che costringe gli utenti non soltanto a fermarsi molto spesso, ma ad avere comunque una sensazione di disagio. Ridurre la cybersickness però è possibile? Probabilmente sì, ma bisogna prima chiarire da cosa possa essere causata.
Lo studio
A chiedersi questo è stato il Dr. Juno Kim della scuola di Optometria e Scienze della Visione di Sydney, che ha spiegato la sua visione della cosa:
Cybersickness è un termine ombrello che indica tutti di disagi creati dall’utilizzo di un display computerizzato. Questa condizione di salute – molto simile alla chinetosi (NdR: come già accennato, il genere di nausea che si prova per il mal d’auto o mal di mare) – include solitamente sintomi come vertigini, nausea, discomfort visivo e disorientamento. Ma laddove la chinetosi è data da una mancata corrispondenza sensoriale tra quello che vediamo e quello che gli altri sensi ci dicono a proposito del nostro movimento, la cybersickness non richiede che vi sia movimento fisico.
Ci sono molte teorie su cosa sia a causare questo effetto ed è per questo che Kim ha esaminato 30 soggetti, proponendo a ciascuno un’esperienza VR che, ripetuta più volte, è stata eseguita con diversi valori di latenza, ovvero del ritardo che c’è tra il movimento della testa e lo spostamento della visuale.
Inducendo infatti artificialmente ritardi superiori ai 5 millisecondi, la latenza minima del visore Oculus Rift CV1, e chiedendo ai partecipanti di indicare la loro percezione di instabilità della scena e la presenza di sintomi di Cybersickness, si è trovato che con l’aumentare del ritardo indotto aumentava la frequenza di sintomi.
L’esito di questo studio non permette ancora di risolvere il problema della Cybersickness alla radice, ma sembra almeno aver confermato la teoria di Kim. Inoltre potrebbe aiutare studi futuri dal momento che ha permesso di creare un modello che spiega al meglio l’influenza che la DVP (Difference in Virtual to Physical), ovvero la differenza angolare che c’è in un dato momento tra l’angolazione reale della testa e quella della scena virtuale che il sistema visivo percepisce, ha su questo effetto.
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