Alcune persone dicono di essersi osservate dall’alto, come se il corpo non appartenesse più a loro. Non è fantascienza né un sogno strano: si tratta delle esperienze extracorporee, un fenomeno più comune di quanto si pensi. Ora, una nuova ricerca ha individuato dei tratti condivisi da chi le ha vissute, e i risultati accendono più di una lampadina.
Il dettaglio che nessuno aveva notato su chi “esce dal proprio corpo”
Chi le vive parla di una netta separazione tra mente e corpo. Talvolta si tratta di un momento di pace assoluta, come accade durante la meditazione. Altre volte, invece, la sensazione emerge in circostanze estreme: incidenti, traumi, stati di forte stress.
In entrambi i casi, la percezione è chiara. Il corpo resta immobile, mentre la coscienza sembra galleggiare altrove. Un fenomeno che non segue una logica apparente, ma che oggi inizia a delinearsi con maggior precisione.
Uno studio recente condotto dalla neuroscienziata Marina Weiler all’Università della Virginia ha coinvolto oltre 500 adulti, indagando la relazione tra le esperienze extracorporee e aspetti psicologici individuali. I dati raccolti mostrano che chi ha vissuto OBEs (dall’inglese Out-of-Body Experiences) condivide alcune caratteristiche ricorrenti: una maggiore tendenza alla dissociazione, sintomi legati ad ansia o depressione e, non di rado, un passato segnato da traumi infantili.

Questi elementi non sono necessariamente causa delle esperienze, ma rappresentano uno scenario comune che ne facilita l’insorgenza.
Il cervello, in determinate condizioni, può “disconnettere” il senso di sé dal corpo fisico. Una spiegazione plausibile arriva dalle neuroscienze: la stimolazione di una specifica area cerebrale (il giro angolare destro) può indurre artificialmente una OBE. Quest’area integra le informazioni visive con i segnali provenienti dal corpo. Quando questo equilibrio viene alterato, l’auto-percezione può distorcersi.
Tuttavia, non tutte le esperienze nascono da stimoli neurologici diretti. Alcuni episodi sembrano invece emergere come meccanismo adattivo, una forma di difesa psichica. È possibile che la mente, di fronte a situazioni di difficile elaborazione, cerchi una via alternativa per elaborare il dolore o prendere distanza da esso.
Un’ipotesi che apre domande interessanti sul ruolo della coscienza e su quanto sia flessibile la nostra percezione del sé.
Non c’è da dimenticare una cosa però: in molte culture (principalmente locate in Asia centrale, Siberia, Amazzonia, Nord America) le OBEs non sono considerate strane, ma parte integrante di rituali, esperienze spirituali o religiose.

Nel pensiero induista, in particolare nei testi vedici e nelle pratiche yogiche avanzate, si parla di “pratyahara” e di esperienze fuori dal corpo come tappe di sviluppo spirituale. Il corpo è visto come un veicolo temporaneo, e la coscienza può separarsene per accedere a stati superiori di consapevolezza.
Da questo punto di vista, la nostra tendenza a ricondurle sempre a trauma o disfunzione potrebbe riflettere un bias culturale occidentale, che riduce tutto a patologia o malfunzionamento cerebrale. Il modo in cui una cultura interpreta l’esperienza extracorporea dipende profondamente dal suo concetto di coscienza, corpo e realtà.
Quello che in ambito clinico viene trattato come dissociazione o disturbo, in altri contesti è considerato dono, apertura o evoluzione spirituale. Questo non significa che tutte le OBE siano esperienze mistiche autentiche, né che debbano essere interpretate solo in chiave simbolica. Ma ignorarne la dimensione culturale rischia di ridurre un fenomeno complesso a una categoria clinica rigida.