La storia è costellata di torture atroci, ma ce n’è una particolarmente bizzarra e crudele che sfrutta un animale apparentemente innocuo: la capra. Questo metodo, noto come “lingua di capra”, trasforma un simbolo di innocenza bucolica in uno strumento di indicibile sofferenza. Agghiacciante davvero, considerando che questo animale viene prima adescato e poi sguinzagliato.
La tortura della lingua di capra: storia e crudeltà di una pratica (per fortuna) dimenticata
Immaginate la scena: i piedi di un malcapitato, immersi in acqua salata, vengono offerti alle attenzioni di una capra che, attratta dal sapore, inizia a leccarli con la sua lingua ruvida. Ciò che all’inizio potrebbe sembrare una situazione grottesca, si rivela presto un tormento insopportabile.
La lingua abrasiva dell’animale rimuove strato dopo strato la pelle, trasformando quello che inizia come un solletico in un dolore lancinante. La pelle si lacera, esponendo i tessuti sensibili e i nervi, mentre la sofferenza diventa sempre più intensa.
Ma il supplizio non finisce qui. La ferita aperta, esposta ai batteri presenti nella bocca della capra, diventa un terreno fertile per infezioni potenzialmente letali. In un’epoca in cui l’igiene era un concetto rudimentale e la medicina era ancora agli albori, il rischio di una morte atroce per setticemia era più che concreto. Anche se la vittima fosse sopravvissuta, i danni ai piedi potevano lasciare cicatrici indelebili, compromettendo per sempre la capacità di camminare.
Altro che torture psicologiche della CIA!
La tortura della lingua di capra, infatti, affonda le sue radici in tempi remoti, con testimonianze che suggeriscono il suo utilizzo già nell’antica Roma. A differenza di altri metodi, come la crocifissione o il toro di Falaride, che richiedevano strumenti elaborati, questa pratica si basava sulla crudeltà insita nella sua semplicità.
La lentezza del processo era parte integrante della punizione, amplificando l’angoscia psicologica della vittima. L’attesa straziante del peggioramento, unita all’impossibilità di sfuggire, rendeva questa tortura un vero e proprio incubo ad occhi aperti. Un supplizio che, come nel mito di Sisifo, sembrava non avere mai fine.
Ma perché escogitare un metodo così efferato? La risposta risiede nella natura stessa del potere e nella sua necessità di affermarsi attraverso il terrore. Metodi di tortura come questo non erano solo una punizione: erano uno spettacolo macabro, un monito per chiunque osasse sfidare l’autorità costituita. Trasformare un animale comune, simbolo di una vita rurale semplice, in uno strumento di sofferenza era un promemoria agghiacciante della capacità dell’uomo di piegare la natura ai suoi scopi più crudeli.
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