Di solito la sera mi piace infilarmi sotto le coperte ed immergermi in qualche fantastico mondo abitato da draghi, cavalieri e stregoni, ma lunedi sera, il 5 Novembre per l’esattezza, ho deciso di tradire il mio accogliente letto (sob!) per una più scomoda poltrona e piazzarmi davanti alla Tv a guardare il nuovo film di Michael Moore: Fahrenheit 11 9.
L’ultimo documentario di Michael Moore è un affresco liberale e anticonservatore che non prende di mira solo l’amministrazione degli Stati Uniti, ma anche le politiche dei Democratici e dei Repubblicani che hanno portato all’attuale situazione politica
– presentazione del film Fahrenheit 11 9 alla Festa del Cinema di Roma 2018.
Molti di voi si staranno chiedendo “e chi diavolo è Michael Moore?” Beh signori miei, Michael Moore è un mostro sacro del documentario.
Chi è Michael Moore
Nato nel 1954 a Davidson, nel Michigan (USA), cresce in una famiglia proletaria irlandese cattolica. Sia il padre che il nonno lavorano nella locale fabbrica della General Motors e anche lui sembra destinato a seguirne le orme, ma mai ci fu pensiero più scorretto.
Infatti, dopo aver frequentato la University of Michigan, studiando giornalismo, decide di votare la sua vita a raccontare i problemi della società americana e così, a soli 22 anni, fonda il FLINT VOICE, un quotidiano locale che dirigerà per 10 anni.
Nel 1989, quando la General Motors chiude 11 stabilimenti a Flint (cittadina a pochi passi dalla sua città natale) lasciando senza lavoro molti operai fra cui suoi amici e la sua famiglia, Michael affronta a muso duro la General Motors in Roger & Me (1989), un documentario attraverso il quale cerca un dialogo con Roger B. Smith, presidente della casa automobilista, chiedendo spiegazione della chiusura improvvisa delle fabbriche.
Il documentario ha un successo tale da essere uno dei documentari più visti al mondo, vincendo un Peace Film Award al Festival di Berlino nello stesso anno. Ma Michael non si ferma qua, e poco tempo dopo si scaglia contro un altro Presidente, ma questa volta quello degli Stati Uniti d’America. E lo fa prima con un libro Stupido Uomo Bianco e poi con il film che lo ha incoronato uno dei migliori documentaristi di tutti i tempi: Fahrenheit 9/11 (2004). Il titolo si rifà a quello del romanzo di Ray Bradbury Fahrenheit 451 (il quale non ha particolarmente gradito il “furto” di Michael Moore), da cui fu tratto l’omonimo film.
Fahrenheit 9/11
Fahrenheit 9/11, che mette in collegamento la guerra in Iraq con gli attentati dell’11 settembre 2001, sebbene un progetto rischioso che inizialmente doveva essere prodotto dalla Disney (la quale però cambio idea), ha riscosso un successo clamoroso in tutto il mondo, scatenando certo notevoli polemiche ed arrivando a regalare al suo creatore la Palma d’Oro al Festival di Cannes nel 2004.
Il documentario si apre con l’annuncio della vittoria di George W. Bush alle presidenziali statunitensi del 2000 e prosegue con gli attentati dell’11 settembre 2001, esaminando le relazioni fra la famiglia Bush e la famiglia Bin Laden, protrattesi per ben tre decenni ed affermando come gli interessi economici del Presidente e famiglia spingano l’amministrazione Bush a mettere in secondo piano quelli della nazione.
Il soggetto del documentario diventa quindi la guerra in Iraq e le terribili sofferenze ed ingiustizie che sta causando al popolo iracheno, rendendo pubblici alcuni filmati delle torture praticate sui prigionieri ad Abu Ghraib. Infine Moore evidenzia il modo utilizzato per reclutare i soldati statunitensi, notando come si cerchi di aumentare il tasso di partecipazione andando a pescare nei quartieri più disagiati, contando sulla mancanza di sbocchi lavorativi e la necessità di denaro delle famiglie piu povere.
Il film ha incassato circa 222 milioni di dollari nel mondo, diventando il documentario col maggior incasso nella storia.
La carriera di Michael prosegue tra una condanna e l’altra in pellicole come Sicko (2007), in cui accusa il sistema sanitario a stelle e strisce, un poco considerato Slacker Uprising (2007), Capitalism: A Love Story (2009) con il quale si scaglia contro il padre stesso dell’America e del nuovo occidente: il capitalismo ed ancora Where To Invade Next (20015), per protestare contro la politica d’invasione americana.
Il ritorno di Moore
Ora Michael è tornato, e sposta la sua attenzione su un’altra significativa data: il 9 novembre 2016, giorno in cui Donald Trump è stato eletto 45esimo Presidente degli Stati Uniti d’America. Dopo aver ripreso il tema delle elezioni presidenziali negli Stati Uniti d’America del 2016, già documentate nella sua precedente pellicola, Michael Moore in TrumpLand, il regista prosegue raccontando la successiva presidenza di Donald Trump, la cui elezione venne ufficialmente annunciata il 9 novembre 2016 appunto.
Pare proprio che i Presidenti non vogliano dar pace a Moore, che si domanda “Com’è potuto accadere?” che Trump abbia potuto “centrare la buca con un colpo solo” (con un riferimento, anche in copertina, allo sport preferito del biondo Presidente), additando come responsabile principale il partito Democratico e la sua errata campagna elettorale.
Si sofferma poi sulla crisi dell’acqua di Flint e dell’indifferenza della classe politica per le sofferenze del suo popolo. Moore si chiede infine come sia possibile uscire dall’attuale situazione politica e vede una possibile risposta per un riscatto nazionale nei movimenti giovanili sorti in seguito al massacro alla Marjory Stoneman Douglas High School, che rivendicano il controllo delle armi.
Chissà che i giovani non siano allora la risposta per i problemi di questa società malata, in cui il Dio Denaro pare danneggiare la mente di chi promette di prendersene cura. Non solo quella americana, ma quella mondiale, anche la nostra.
È un film che fa male ragazzi, ma che vi consiglio di non perdervi. Il titolo può suonare fuorviante perché riecheggia completamente quello della pellicola che l’aveva reso famoso nel 2004: Fahrenheit 9/11.
Buona visione!
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