Sono passati più di cinque anni da quando Cowspiracy ha scosso le coscienze umane. Il documentario prima prodotto da Kip Andersen e poi portato su Netflix grazie al supporto di Leonardo Di Caprio denunciava l’impatto dell’allevamento animale e della sua relativa filiera.
Ora Seaspiracy mette sotto i riflettori la pesca e l’industria ad essa collegata e gli effetti mostruosi sul nostro pianeta, sia su fauna e flora marina, che sulla vita terrestre. E lo fa con quella crudezza necessaria che può rattristare chi già è attento a certe tematiche, sensibilizzare chi viveva nell’ignoranza e infastidire chi se ne frega e anzi oppone una certa (patetica) resistenza al tentativo, riuscito viste le visualizzazioni e il risalto mediatico, di rendere il mondo un posto migliore.
Sono 90 minuti di filmati, interviste, grafici, prodotti dal ventisettenne videomaker inglese Ali Tabrizi. Minuti pesanti che uno dei tanti millennials interessati al futuro del pianeta ha deciso di mostrarci per avvertirci dell’impatto catastrofico che la pesca intensiva ha sul nostro globo.
Il documentario è arrivato nella top 10 dei più visti di Netflix in due giorni. Ha colpito duro. Inizia tutto con la visione poetica di Ali, innamorato degli oceani, incupito dalle notizie di balene spiaggiate. Da lì il passo al dramma delle plastiche negli oceani, alla morte della vita marina, alle microplastiche che per bioaccumulo vengono ingerite da noi stessi con il branzino della domenica, è breve.
Ma la faccenda si complica, perché entra nella storia la volontà umana. Quella volontà che permette i massacri delle baleniere, che supporta la ricerca ossessiva delle pinne degli squali, privati di esse e poi gettati in mare a morire. Non è solo (per modo di dire) passivo menefreghismo dell’inquinamento dei mari, ma anche massacro indiscriminato. Perché ovviamente lo sterminio di una o l’altra specie ittica comporta, a catena, disastri immani.
Sea Shepard, associazione volontaria che difende le acque dai bracconieri marittimi, riporta numeri e fatti che fanno venire il voltastomaco. E tutto porta alla pesca intensiva, alle reti disperse in acqua, prima fonte di inquinamento da plastiche, alle macchine di morte che sono i milioni di pescherecci in giro per gli oceani. No, questo meccanismo non ha niente di sostenibile ormai. L’unica soluzione è ridurre drasticamente (o meglio eliminare) il consumo di specie ittiche, inutile girarci intorno.
Ma ciò che è peggio è che chi dovrebbe tutelare i mari dall’uomo e l’uomo dalla barbarie sembra non avere davvero un controllo sulla situazione. Il marchio per la pesca sostenibile Marine Stewardship Council (MSC) e l’etichetta ‘salva delfini’, viene fuori dalle ricerche di Ali e da altre testimonianze, non assicura quel che promette. Ed è una frode, basta pagare per averlo sulla propria lattina di tonno.
E non finisce qui. La barbara industria si basa spesso sulla schiavitù umana. Pescatori confinati sulle navi per anni, minacciati e stremati. Chi si oppone finisce in mare. I sopravvissuti hanno paura a parlarne.
Il documentario va verso il finale con uno scorcio sulla mattanza delle balene presso le isole Faroe, il Grindadráp. Sangue a fiumi, eredità dei norreni, qualcosa di incompatibile con il mondo civile di oggi. Ma forse è l’unico momento in cui si percepisce un rituale rispetto dell’animale cacciato in 90 minuti di indiscriminato e meccanico massacro. Anche se il sangue resta.
Ovviamente sono state rapide le reazioni dell’industria ittica che ha contestato numeri e dichiarazioni fatte nel documentario. Si aggrappano ad inesattezze, alla decontestualizzazione di certe dichiarazioni. Ma il problema non sono i dettagli, ma il trend, la traiettoria che l’industria ittica sta seguendo. Quella è incontestabile e decisamente chiara: totalmente sbagliata. Non servono numeri per capire che c’è qualcosa che non va e infatti non ne abbiamo citati. E’ la morte dell’etica e del rispetto.
Cercare di giustificare ciò che sta avvenendo nei mari è semplicemente meschino. Animali mutilati, pescati per errore (bycatch) e ributtati in acqua morenti, estinzione di specie. C’è molto dolore, tanta violenza. E non si può parlare di poetico sostentamento delle comunità costiere, non è più quello da secoli.
La biologa marina ed oceanografa Sylvia Earle chiude così il documentario: ‘La gente si chiede se gli animali sentono dolore. Da scienziata dico che si tratta solo di buon senso. Hanno un sistema nervoso, e sentono come noi nemmeno immaginiamo: i pesci percepiscono i più piccoli movimenti dell’acqua, come possono non avvertire tutto il resto? Credere che non sentano dolore è solo un modo per giustificare un comportamento barbaro nei loro confronti’.
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