C’è un fenomeno sconosciuto o poco riconosciuto sul quale dalla comunità dei videogiocatori, e che meriterebbe più attenzione. E’ il fenomeno che io sono solito denominare “ testing distribuito ”.
E’ un processo progressivo e così lento da essere difficilmente individuabile, che ha una lunga storia e che si confonde con una naturale evoluzione dei mezzi di distribuzione dei prodotti videoludici.
Permettetemi quindi un breve excursus temporale sulla storia della disribuzione dei videogiochi e delle relative e conseguenti tempistiche di produzione, bugfixing e vendita.
Inizialmente c’era solo un posto dove trovare i nostri amati giochi: il negozio.
Lì c’era il supporto fisico, ovvero il cd. Ancora oggi ho una libreria che contiene gran parte dei CD che ho religiosamente custodito dalla mia giovinezza. Un gioco DOVEVA uscire perfetto dalla catena di produzione e le conseguenze dei “bachi” impattavano direttamente sulla qualità e sul valore del gioco finito.
Il testing distribuito inizia con le digital delivery platforms
Poi si è passati alle digital delivery platforms. Iniziate con Steam, esse si sono diffuse ed hanno assicurato un’altro canale di distribuzione sia per i prodotti finiti che per le patch relative.
Il passaggio successivo è stato il proliferare di strani bug al rilascio del prodotto finito. Questo proliferare ha creato molti dubbi sull’effettiva verifica del buono stato del titolo al momento del rilascio. Il timore era che le case produttrici sfruttassero la natura del mezzo di distribuzione (che permetteva il patching dopo la data di acquisto) per far uscire in anticipo un gioco non finito, affidandosi alla certezza di poter correggere i bugs in un tempo successivo. I dubbi sono stati confermati: tantissimi titoli hanno cominciato ad avere bisogno di patch a breve distanza dal rilascio oppure addirittura al day one.
Le alfa e le beta in vendita sugli stores ufficializzano il testing distribuito
Poi si sono cominciati a vedere giochi in beta ed alfa direttamente sugli store online. La possibilità di effettuare questo tipo di prevendita permetteva di avere un feedback sul prodotto non finito, e di dirigere quindi meglio lo sviluppo del titolo verso i gusti dei potenziali acquirenti. Ovviamente tale pratica espone però l’acquirente al rischio che lo sviluppo del gioco non finisca davvero o, come alternativa ancora peggiore, la casa produttrice non abbia realmente l’intenzione di portare a termine lo sviluppo del gioco e cerchi esclusivamente di fare cash in sull’idea di un progetto per poi scappare con la cassa.
Cosa hanno in comune quest ultime due evoluzioni? Che parti dello sviluppo sono demandate all’utente: debugging e testing soprattutto, attività che vengono “distribuite” all’utente finale, che pagando denaro dovrebbe avere esclusivamente il vantaggio di godere di un prodotto di qualità.
Il testing distribuito ci è stato lentamente infilato nel cervello da una prassi
Insomma si è progressivamente abituato il pubblico ad aspettarsi sempre minore qualità e sempre minore precisione e professionalità nella fattura di un prodotto videoludico.
E che questa lezione sia entrata nella testa delle persone lo dimostra il semplice fatto che questa logica si è automaticamente estesa alle nuove tecnologie come la VR: decine di giochi fatti male pur di sfruttare il potenziale d’acquisto che tale tecnologia sblocca presso un pubblico che non si aspetta più la qualità.
Una prova lampante sono le recensioni di videogiochi in cui si sottolinea quanto finalmente per un determinato titolo “renda” e “sia legittima” la trasposizione in VR.
Nessuno vuole tornare nel passato, ma dobbiamo seriamente ragionare su alcuni processi moderni se vogliamo giocare a dei giochi e non limitarci a delle tech demo vendute a prezzo pieno.
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