The Cost of Knowledge, come ribellarsi all’editoria scientifica

L'open access e l'editoria scientifica nel mondo moderno

Ottobre è stato un mese complicato per la ricerca scientifica. Per molte università e centri di ricerca è stato il momento di rinnovare gli accordi con le case editrici per garantire ai propri ricercatori l’accesso alle riviste di settore. In molti casi, però, si è vista un’inversione di tendenza — molti accordi sono stati stracciati, o pesantemente rivisti. È il risultato di un’onda di generale malcontento e frustrazione nei confronti dell’editoria scientifica che ormai da anni attraversa il mondo della ricerca e raccoglie sempre più sostenitori sotto l’egida dell’open access. Per capirne le motivazioni e risalire a The Cost of Knowledge, però, è necessario prima un po’ di background.

Un po’ di meccanismi

La comunicazione interna al mondo scientifico è, tradizionalmente, appannaggio delle riviste specializzate. Il sistema è, all’incirca, il seguente: un ricercatore lavora ad un progetto e, una volta che ha ottenuto qualche risultato, decide di pubblicarlo. Scrive un paper, ovverosia un articolo, e lo invia ad una o più riviste scientifiche nella speranza di poterlo pubblicare.

L’articolo viene ricevuto dalla rivista e, nel caso delle cosiddette riviste peer-reviewed, inoltrato ad una serie di altri esperti del settore in numero variabile (così come non c’è un vero standard di anonimato: a seconda del campo, i reviewer selezionati potrebbero conoscere l’autore del paper, così come no, e viceversa). Costoro leggono l’articolo, lo analizzano e decidono se sia meritevole di pubblicazione o se, in caso contrario, non ci siano eventuali correzioni che potrebbero salvarlo (o, ancora, se vada rifiutato e basta). La decisione finale è di un membro del comitato scientifico della casa editrice. In caso di semaforo verde, l’articolo viene pubblicato.

L’intero sistema di peer-review è funzionale a garantire la qualità e la significatività dei lavori pubblicati; per questo, un articolo pubblicato su una rivista peer-reviewed ha molto più valore e prestigio di un articolo pubblicato su una rivista senza peer-review. “Prestigio,” qui, è pressoché sinonimo di “curriculum”: nelle valutazioni e nei concorsi per le cattedre, gli assegni di ricerca e via dicendo sono gli articoli pubblicati su queste riviste ad avere peso, non gli altri. Per questo, per un ricercatore, è estremamente importante pubblicare in riviste peer-reviewed: non solo, ma esistono anche delle metriche e delle valutazioni specifiche per le riviste, per cui esistono riviste più di prestigio ed altre meno importanti. Un enorme fetta del mercato è in mano ad alcuni colossi come Springer ed Elsevier; ed è proprio contro questi colossi e le loro pratiche commerciali che un sottogruppo della comunità via via più corposo combatte.

Il problema

È difficile capire dove sia iniziato tutto — quale sia stata la goccia a far traboccare il vaso. Quello che è certo è che, nelle pratiche commerciali delle case editrici scientifiche, ci sono diverse punti molto delicati. In primis, l’intera attività di peer review è svolta pro bono: i referee — coloro che leggono e giudicano i paper — non vengono pagati; il loro lavoro è in sostanza considerato un “servizio alla comunità”. In aggiunta a ciò, spesso ci sono delle spese di pubblicazione, tipicamente coperte dai fondi del progetto del ricercatore (ma che, nel caso ad esempio di università minori o ricercatori indipendenti, si rivelano un vero problema).

Alle università è poi chiesto di pagare per gli abbonamenti alle riviste, in modo che i propri ricercatori possano accedere ai risultati della ricerca internazionale. L’Università degli Studi di Torino riporta di spendere circa due milioni di euro l’anno in soli contratti con gli editori. Le università del Regno Unito spendono in abbonamenti fino ad un decimo dei fondi statali che ricevono ogni anno. Il ragionamento sorge quasi spontaneo: ma perché dovremmo pagare il lavoro prodotto da un ricercatore pagato con i soldi pubblici (come i dipendenti delle università)? Non si tratta, insomma, di pagare due volte per lo stesso prodotto? Non solo: sebbene siano evidenti i costi dell’editoria (di stampa, per quei giornali che non sono solo online, di amministrazione e logistici), la Elsevier nel 2013 ha avuto un margine di profitto del 39%, circa 800 milioni di pound su 2100. Questi profitti non possono che essere generati dall’attività di editoria scientifica — ci si potrebbe chiedere: è proprio necessario? Certo, Elsevier non lo fa per carità cristiana. La domanda è piuttosto: è proprio necessario che le università riempiano di soldi simili colossi, anziché utilizzarli per finanziare la propria ricerca? Molti ricercatori e membri della comunità scientifica credono ormai che la risposta a questa — e a molte altre — domande sia no.

La rivolta di The Cost of Knowledge

Una delle egide sotto cui si radunano è quella di The Cost of Knowledge (thecostofknowledge.com), che si pone nello specifico l’obiettivo di boicottare Elsevier sulla base di tre semplici ragioni, che vengono riassunte nella homepage e approfondite nello Statement of Purpose: il costo degli abbonamenti è eccessivo; per questo, molte biblioteche sono costrette a comprare gli abbonamenti in pacchetti, comprando così l’accesso anche a riviste a cui non sono interessate; è noto che Elsevier faccia lobbying contro l’open access e la libera distribuzione dell’informazione. Il fondatore del movimento TCoK è Timothy Gowers, un celebre vincitore della medaglia Fields e attualmente professore a Cambridge. La sua ribellione, prontamente supportata da migliaia di altri studiosi, ha come principale avversaria l’Elsevier, ma le stesse ragioni potrebbero essere utilizzate contro le altre grandi compagnie.

I movimenti a favore dell’open access puntano a far crollare i cosiddetti paywall, i ‘muri’ che tengono nascosti gli articoli pubblicati sulle riviste a chiunque non possa pagare migliaia di dollari di abbonamento annuale. Diverse università, anche italiane, hanno iniziato a mettere in campo programmi a favore dell’open access, ma la questione è delicata, perché chiunque lavori in accademia spesso non può permettersi di non pubblicare su riviste di settore in mano ai ‘giganti’: ne andrebbe della sua carriera. Sono così nati sistemi contorti, frutto di lunghe contrattazioni con gli editori: il metodo più comune è quello di condividere online (su arXiv.org, ad esempio) un pre-print del proprio articolo, i.e. una versione precedente all’editing e al controllo peer, intoccata dalla casa editrice e di solito in qualche misura (ma spesso non troppo) differente dalla versione definitiva pubblicata. Ogni campo di ricerca ha le proprie soluzioni, ma sono tutte accomunate da una sensazione: che siano temporanee. La notizia è del 24 ottobre: il CNRS ha rifiutato il contratto con la Springer per il biennio 18-20, tagliando di fatto una grossa fetta della comunità francese dall’accesso alle riviste. Il giorno dopo, il 25 ottobre, l’Università di Bonn (in cui lavora una recente medaglia Fields, Peter Scholze) ha concluso il contratto con la Elsevier ed ha affidato le negoziazioni a Project DEAL, un’associazione il cui scopo è radunare le università tedesche per poter negoziare in gruppo con le grandi case editrici e avere, così, più leverage per riformare costi e condizioni di accesso.

Il futuro di Gowers, di The Cost of Knowledge, di aLrXiv, quello in cui l’informazione prodotta con i soldi pubblici e curata pro bono dalla comunità non sarà fonte di profitto per compagnie private — il futuro in cui l’informazione sarà accessibile a chiunque lo desideri sembra essere, un passettino alla volta, più vicino. Roma non è stata costruita in un giorno.

Simone Ramello

Sono la comare che abita vicino a casa vostra e racconta al paese di quella volta che vi siete versati la conserva addosso: non interessa a nessuno, non è nemmeno divertente, ma questo non mi fermerà.
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