Nel 1971, un gruppo di studenti della Stanford University viene arrestato e scortato in prigione. Sono gli anni del pensiero hippie, del flower power, delle proteste pacifiste, e gli Stati Uniti sembravano spaccati in due fazioni distinte e inconciliabili: autorità e popolo. In mezzo a tutto questo, un professore californiano ottiene i fondi per realizzare un controverso progetto: lo Stanford Prison Experiment, che nel corso degli anni ha acceso un vivace dibattito sia nella comunità scientifica che in quella filosofica.
Guardie e ladri, un gioco estremo
I “prigionieri”, studenti del college volontari, vennero identificati e sottoposti alle normali procedure dell’epoca, come se fossero sottoposti ad un arresto vero e proprio. I “carcerieri”, però, non erano poliziotti: era un altro gruppo di studenti, ai quali era stato assegnato il ruolo di guardie. L’ideatore del progetto, il professor Philip Zimbardo, aveva come obiettivo quello di osservare l’evolversi dei ruoli e dei comportamenti dei ragazzi una volta posti in una situazione dove non esistevano né la libertà né la socialità dell’ambiente liberale del college. Le guardie avrebbero dovuto sostenere turni nel tenere d’occhio i carcerati, e questi ultimi avrebbero dovuto sopportare la prigionia per almeno due settimane, nelle intenzioni di Zimbardo.
L’esperimento si concluse bruscamente dopo sei giorni.
Tutti i volontari erano brave persone, senza ideologie estremiste, studenti di psicologia entusiasti di poter partecipare a quello che sembrava un esperimento relativamente tranquillo e facile da condurre. I tipici ragazzi da college californiano degli anni ’70, con la loro musica rock e i capelli lunghi, gli adesivi contro la guerra e la libertà come ideale assoluto. Eppure, un gruppo di loro si trasformò in carnefice, costringendo Zimbardo e gli altri sovrintendenti ad interrompere bruscamente il progetto. Le guardie erano diventate brutali, crudeli, e molti dei prigionieri avevano cominciato a soffrire crolli nervosi e crisi mentali molto pesanti. La violenza psicologica (e fisica) li aveva resi schiavi, incapaci di ribellarsi, ed erano completamente alla mercé dei loro carcerieri, che fino a qualche giorno prima salutavano allegramente tra i corridoi della Stanford University. Ma come era successo tutto questo?
Il Male e la percezione del potere
Lo scopo di Zimbardo era stato quello di dimostrare che fosse un particolare sistema sociale a generare il Male negli esseri umani, di distorcere la loro percezione di giustizia e di umanità, e di rendere innocui universitari degli spietati carcerieri. “La maggior parte delle persone, il più delle volte, possono cadere preda delle forze situazionali”, come dichiarò successivamente Zimbardo in un’intervista per RT.
Dopo qualche giorno, gli studenti arrestati cominciarono ad identificarsi tramite il loro numero da prigionieri, e le guardie ad imporre punizioni sempre più pesanti ed umilianti. Dopo un tentativo di evasione fallito, ed uno sciopero della fame represso duramente, Zimbardo cominciò a rendersi conto di aver esagerato. Gli studenti si erano completamente depersonalizzati, l’esperimento non era più un gioco, e la tirannia del sistema carcerario, di cui lui stesso faceva parte, aveva avuto la meglio. Lo Stanford Prison Experiment fu interrotto, e i ragazzi tornarono ad essere normali studenti del college, anche se alcuni di loro continuarono a subire gli effetti della prigionia anche a mesi di distanza.
Le controversie
Ovviamente, l’esperimento non mancò di sollevare molte critiche, e anche molti dubbi. Anzitutto, le guardie erano state istruite nel non farsi problemi nell’essere dure, e di utilizzare i metodi che più ritenevano consoni alla situazione. Di base, non c’era nessun motivo di utilizzare tanta brutalità, ma di certo nessuno aveva detto loro di andarci piano. In secondo luogo, Zimbardo era molto coinvolto nell’esperimento, e invece di fare da osservatore imparziale, era il sovrintendente diretto del progetto, e dunque esercitava il suo personale e arbitrario ascendente sia sui prigionieri che sulle guardie. Egli stesso affermò di essersi sentito trasformato in un qualcosa di malvagio, e di essere in parte responsabile delle crudeltà che furono commesse.
Oltre a ciò, in molti criticarono la disumanità e l’indifferenza con le quali l’esperimento era stato svolto, mettendo studenti in situazioni estremamente umilianti e pericolose, dove nessuno era di fatto intervenuto finché il tutto non era degenerato in violenza psicologica estrema e totale. Zimbardo aveva volutamente deciso di ignorare il fatto che arrestare e imprigionare degli studenti potesse non essere propriamente etico, e aveva addirittura incoraggiato le guardie ad essere dure con i loro compagni di scuola.
Infine, molti psichiatri e professori contestarono la validità stessa di un esperimento simile, sostenendo che in mancanza di basi specifiche, i risultati del progetto non potevano essere considerati scientificamente corretti, ma puramente aneddotici.
L’attualità dell’esperimento
Nonostante siano passati 50 anni, lo Stanford Prison Experiment risulta oggi più attuale che mai. Zimbardo dimostrò che la repressione da parte delle autorità non si verifica a causa di alcuni soggetti particolarmente inclini alla violenza, ma è il sistema stesso a creare ed incoraggiare forme di repressioni brutali, costringendo la maggioranza del popolo a subire passivamente violenza o a restare indifferente di fronte ad essa. In molti, negli Stati Uniti, hanno utilizzato l’esempio di Stanford per parlare della brutalità delle forze dell’ordine, soprattutto negli ultimi anni, e di come il Male sia creato, piuttosto che essere insito nella natura umana. Lo psichiatra forense della Yale School of Medicine, Bandy X. Lee, ha contribuito assieme a Zimbardo e ad altri al libro The Dangerous Case of Donald Trump, parlando della deriva autoritaria dell’ex Presidente e dei suoi fan, e ha dichiarato:
“Il punto principale dello Stanford Prison Experiment è l’influenza della struttura istituzionale. Quando accadono abusi e violenze tendiamo ad attribuirli a poche mele marce, mentre l’enorme influenza del sistema, spesso invisibile ma ben documentata, è messa in secondo piano, sottovalutata”.
Un esperimento che a distanza di decenni continua a far parlare, dunque, sia per le controversie legate ad esso che per l’attualità delle sue idee. Nel 2015 è uscito un film dal titolo The Stanford Prison Experiment, che ha visto il festival Sundance nello stesso anno.
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