Turchia (e non solo): come Internet ha cambiato le rivoluzioni

Come immagino saprete, nelle ore della scorsa notte la situazione in Turchia è diventata assai incerta a seguito del tentato colpo di Stato da parte di alcuni vertici militari che miravano a destituire il presidente Erdogan; il tentativo è fallito. Ma l’evento in sé ha confermato un fenomeno che sta consolidandosi da qualche anno: l’importanza di Internet e della tecnologia nelle “rivoluzioni” o presunte tali; certo, non tanto negli atti più o meno violenti per ribaltare regimi e poteri, quanto nel loro sviluppo fra la popolazione e la loro organizzazione.

Prima della Turchia: la Primavera Araba

Nel 2011 ci riempivamo la bocca dell’espressione “Primavera Araba“. Qualche mese prima  il venditore di strada Mohamed Bouaziz si da fuoco in piazza per protestare contro la confisca della sua merce e contro le umiliazioni subite. Gesto forte, che richiama alla mente un’altra primavera – quella di Praga con il rogo di Jan Palach – ma che avrebbe tranquillamente potuto affievolirsi come tante altre ingiustizie nel mondo o in un paese, come la Tunisia di allora, ai limiti della dittatura.

Invece qui interviene internet, in particolar modo i social network: attraverso Facebook, social media non soggetto alla censura governativa, i familiari cominciano a rilanciare la notizia, che in breve tempo diventa virale. La Tunisia infatti era un paese con un’alta percentuale di popolazione giovane – quasi la metà della popolazione nel 2011 aveva meno di 30 anni – e con una penetrazione di internet fra le più alte del continente africano, dove il 30% di questa giovanissima popolazione aveva la possibilità di accedere alla Rete. Nei vari paesi in cui la rivoluzione si estenderà, verranno usati soprattutto i social media per coordinare le proteste e le operazioni; in Egitto un’attività lo dirà apertamente: “Usiamo Facebook per programmare le proteste, Twitter per coordinarci e Youtube per mostrarle al mondo”.

Poi, purtroppo, la cosiddetta Primavera Araba ha finito per concludersi in situazioni incerte nella maggior parte dei paesi che l’hanno vissuta. Questo perché Internet da solo non è sufficiente: la scintilla è facile da far scoccare attraverso un mezzo che ha fatto dell’immediatezza la sua bandiera, come un fuoco di paglia si incendia veloce; ma proprio come un fuoco di paglia, va poi mantenuto con qualcosa di più concreto se si vuole che non si spenga. In altre parole: su internet puoi far viaggiare le informazioni e gli appelli all’azione perché è più difficile da monitorare, ma non è impossibile. Ci vuole tempo per adeguarsi e censurare gli strumenti on-line, pertanto all’inizio c’è la disponibilità di usarli, ma poi bisogna fare altro.

Turchia: trasmissione del presidente a smartphone unificati

I fatti di stanotte in Turchia sono probabilmente un’eccellente cartina tornasole, perché il colpo di Stato si è mosso prima su Internet, poi quando ha dovuto tramutarsi in realtà materiale fra le strade gli è mancata la forza, nonostante venisse guidato da alcuni vertici militari. Emergono questi fatti interessanti ai fini della nostra trattazione:

  • Gli ambasciatori turchi all’estero sarebbero stati avvisati preventivamente via mail;
  • Mentre i carri armati occupavano le strade di Istanbul e Ankara, i golpisti annunciavano sul loro sito – il sito del capo di stato maggiore – di aver preso il potere;
  • Fra le prime cose che i golpisti fanno c’è quella di occupare la TRT, la Tv di Stato turca che è alle dirette dipendenze del governo, interrompendone le trasmissioni. Successivamente i lealisti la riconquisteranno;
  • Poco dopo, vengono oscurati anche molti siti internet di informazione;
  • Il sindaco di Ankara su Twitter invita tutti ad uscire di casa, occupare le strade e ignorare il coprifuoco imposto dai golpisti, per renderli di fatto inoperativi;
  • Erdogan parla alla nazione attraverso il suo smartphone e FaceTime.

Quest’ultimo punto è decisamente interessante: Erdogan più di una volta si era scagliato contro internet e i social media, proprio perché attraverso internet possono circolare informazioni, magari non gradite (come accadde per i fatti del 10 ottobre 2015 ad Ankara, dove si chiacchierava anche di una certa approvazione di Erdogan nei confronti di questi attentati…); tuttavia, alla fine Erdogan ha dovuto cedere e per arrivare direttamente alla popolazione ha dovuto usare internet e i social network. E che poi un presidente parli attraverso uno smartphone non è cosa di tutti i giorni, saranno certamente immagini che entreranno nella storia.

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Cosa ci insegnano i fatti di Turchia?

A quanto pare, oggi i fatti politici passano in gran parte sulla Rete. È un bene? È un male? Come sempre, dipende. Internet, per sua natura, è un mezzo assai veloce e difficile da controllare: questo vale sia per chi vuole censurare (gente fra cui rientra anche Erdogan), ma anche per chi vuole semplicemente controllare l’affidabilità delle cose che legge. Ricordiamo sempre le parole di Umberto Eco e delle sue “legioni di imbecilli”: Internet permette di parlare direttamente con la gente, con la popolazione – cose come il #MatteoRisponde di Renzi servono proprio a questo – ma può trasformarsi in un attimo in un grande marasma; ne è un esempio chi, con i corpi di Nizza ancora caldi sull’asfalto parlava dell’ennesimo “false flag” e complottismi vari (del fenomeno delle teorie del complotto ci siamo occupati anche noi, qui), pubblicando a sostegno della sua tesi solo le foto che gli facevano comodo fra le notizie frammentate che si avevano.

Quindi, far passare anche da un mezzo del genere il destino di una rivoluzione può essere utile, ma anche controproducente. La Primavera Araba e il golpe in Turchia ce l’hanno dimostrato, e queste lezioni – che spesso costano la vita di tante persone, solo per i fatti in Turchia di ieri sera si parla di una 90ina di morti – devono spingerci ad un uso consapevole del mezzo. Perché sappiamo che con internet e i social media possiamo arrivare ovunque, e quindi usandoli male possiamo fare danni ovunque, senza conoscerne la possibile entità.

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Mario Iaquinta

Nato da sua madre “dritto pe’ dritto” circa un quarto di secolo fa, passa i suoi anni a maledire il comunissimo nome che ha ricevuto in dote. Tuttavia, ringrazia il cielo di non avere Rossi come cognome, altrimenti la sua firma apparirebbe in ogni pubblicità dell’8×1000. Dopo questa epifania impara a leggere e scrivere e con queste attività riempie i suoi giorni, legge cose serie ma scrive fesserie: le sue storie e i suoi articoli sono la migliore dimostrazione di ciò. In tutto questo trova anche il tempo di parlare al microfono di una web-radio per potersi spacciare per persona intelligente senza però far vedere la sua faccia. Il soprannome “Gomez” è il regalo di un amico, nomignolo nato il giorno in cui decise di farsi crescere dei ridicoli baffetti. Ridicoli, certo, ma anche tremendamente sexy, if you know what I mean…
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