War of the Worlds (La guerra dei mondi, in italiano) era il titolo di uno sceneggiato radiofonico (oltre che dell’omonimo romanzo di fantascienza da cui era tratto) che venne trasmesso il 30 ottobre del 1938 negli Stati Uniti. Ad interpretarlo, un giovane Orson Welles che con l’episodio, non solo ottenne il primato di essere il primo a sperimentare una tale forma di intrattenimento, ma anche quello di riuscire a scatenare il panico tra i cittadini in ascolto. Malgrado gli annunci mandati prima e dopo il programma, infatti, il pubblico non si rese conto che si trattava di una finzione e credette veramente che gli alieni stessero per attaccare il paese. Quel particolare tratto dell’adattamento, simulava un notiziario d’emergenza che aggiornava sulla stato di uno sbarco extraterrestre e se ci pensate bene, condivide alcuni importanti aspetti con l’attuale situazione pandemica. Ebbene, non cito questa storia perché sono un “complottaro”, né sostengo l’idea che dietro il Coronavirus ci siano trame e sotterfugi massonici. Tra l’altro non vedo l’ora che arrivi il 5G, così la finiamo di laggare nei giochi per mobile. E che diamine!
Comunque, il punto è che la comunicazione è una cosa importante e non sono sicuro che sia stata e che venga veicolata appropriatamente in una situazione delicata come quella che stiamo affrontando.
In particolare, c’è un elemento che accomuna la trasmissione dell’epoca con i media odierni: entrambi i target a cui si rivolgono sono privi di “consapevolezza” o la ignorano a discapito della paura a loro indotta. Nel caso dell’esperimento di Welles, il pubblico è spinto (qui senza volerlo) a temere che gli alieni stiano per arrivare. Per quel che riguarda noi, invece, le circostanze sono un attimino più complesse ma quasi analoghe.
E’ di qualche ora fa la notizia che in un paesino in provincia di Caserta, gli abitanti abbiano pensato di dar fuoco alle antenne telefoniche, gesto molto probabilmente scaturito dal timore per il 5G e la sua (solo) presunta correlazione con il virus. Nei giorni scorsi, l’ipotesi è stata sostenuta da alcune fonti cospiratorie ed alimentata da diversi media che in merito alle supposizioni, hanno dato spiegazioni abbastanza torbide e poco chiare.
Ma per non farci mancare proprio niente, potremmo parlare anche di una serie di teorie strampalate sulla possibilità che il Covid-19 sia stato generato artificialmente in laboratorio e così via.
Più in generale, però, è come se ci fosse un ronzio di sottofondo, una volontà (purtroppo) abbastanza ricorrente di individuare un responsabile o una motivazione dolosa per cui tutto quello che sta accadendo, sta accadendo. La prova di ciò, a mio modo di vedere, è da individuare nelle manifestazioni di dissenso delle persone che ignorano le misure di contenimento, additandole come una forma di violazione delle proprie libertà. Un po’ come se temessero che il Grande Fratello di Orwell si materializzi da un momento all’altro.
Sui social è possibile osservare una neanche troppo celata espressione sottintesa che in fondo, ci sia qualcosa sotto; che #nonandràpernientebene, e che non ci sia nessuna ragione di rimanere ulteriormente a casa se non quella di compiacere una volontà malevola non meglio specificata.
Non conosco precisamente le cause scatenanti di queste “sensazioni” ed è più facile che a provocarle sia stato un mix di elementi. Tuttavia, una certa responsabilità non può che non appartenere alla comunicazione adottata. La stampa è passata in poco tempo dal minimizzare il pericolo del virus presentandolo quasi come una “semplice influenza”, al definirlo ultimamente con il termine di “killer” o meglio, “killer silenzioso”. Non sto qui a segnalarvi i link perché sono sicuro che ne abbiate lette e sentite anche voi.
Il fatto è che la paura non è razionale e in un clima di angoscia derivante dalle informazioni sbagliate, è difficile aspettarsi una risposta incontrovertibilmente lucida.
Perché siamo in quarantena? Valeria Corona, raccontacelo tu
Se siamo in quarantena, effettivamente, un motivo c’è: sottrarre il paese a un potenziale collasso del sistema sanitario. Gli ospedali sono pieni zeppi di persone malate e continuano ad arrivarne mentre gli operatori sono sottoposti a ritmi estenuanti al limite della sopportazione psicofisica.
Ecco, la paura si diffonde più facilmente di una scomoda realtà ed è per questo che lo spettatore si disorienta e rischia di non cogliere i fatti rilevanti. Tuttavia, in un cielo costellato da dati e notizie poco precise, ho avuto il piacere di imbattermi in un’iniziativa che secondo me racchiude la quintessenza di una comunicazione opportuna alla situazione Coronavirus.
Valeria ha 28 anni, fa l’infermiera da 5 ed è imbranata da sempre. Lei, oltre a rappresentare una delle figure professionali più importanti per uscire da questo momento problematico, è la protagonista di una rubrica su Niente da Dire.
Vi capiterà di leggere di un certo Jar Jar Binks, di He-Man, di Margherita e troverete persino soggetti presi da Il Signore degli Anelli; non si tratta altro che dello staff ospedaliero e altre entità a stretto contatto con Valeria. Ma l’aspetto paradossale di questo format è che se da un lato i nomi e i luoghi coinvolti sono stati mutati per questioni di privacy, dall’altro si tratta di vicende genuinamente autentiche. Esattamente il contrario di quanto è successo con l’esperimento di Orson Welles.
Valeria Corona, questo il nome completo con cui viene presentata, è una persona reale a stretto contatto con la redazione di Niente da Dire. Ogni giorno parla attraverso la penna di Daniele Daccò dopo aver condiviso con lui i dettagli del suo turno lavorativo. Racconta le sue emozioni, i suoi disagi e le speranze che alimenta minuto dopo minuto nel reparto di terapia intensiva COVID dell’ospedale in cui lavora.
Ci hanno detto che potevamo scegliere se stare a casa oppure no. Alcuni colleghi hanno preferito andare in quarantena, non li biasimo.
Così racconta in uno degli appuntamenti iniziali con il suo diario. Valeria, come molti infermieri non appartenenti all’unità di terapia intensiva, ha deciso volontariamente di essere presente in prima linea in una guerra a cui molti di noi non sanno neanche come contribuire.
Ma la cosa davvero bizzarra è che Valeria, questo scontro lo sta combattendo su due fronti. C’è un modo di vedere la vicenda non solo come una pandemia ma come un’occasione per sviluppare un “buonsenso delle informazioni”.
Inconsapevolmente, i racconti di Valeria possono aiutarci a comprendere cosa significa questo fenomeno visto dagli occhi con chi ne è a stretto contatto. Possiamo osservare quello che un’infermiera fa ogni giorno, percepire il valore delle sue azioni e delle sue scelte. E soprattutto, ci fa capire quello a cui andremmo incontro se non ci fossero abbastanza coraggiosi come lei.
Insomma, trovo che Valeria Corona sia un simbolo di speranza sotto diversi punti di vista. Una speranza di uscire presto dal rischio COVID e la speranza che attraverso i suoi racconti, la gente ottenga una maggiore consapevolezza degli strumenti e dei mezzi di comunicazione. Se c’è una cosa che possiamo fare per aiutarla, infatti, è informarci bene per limitare la diffusione del virus. Solo così possiamo sostenerla.
Forza Valeria, aiutaci a sconfiggere il virus e anche gli alieni cattivi!
Trovate il diario di Valeria sulla pagina Facebook di Niente da Dire.
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