Ci sono poche sicurezze nella vita: una di queste è che, fermando una persona a caso per strada, questa abbia visto almeno una volta nella vita un film Disney. E che, di fronte alla domanda “Qual è un aspetto comune a tutti i film Disney?”, questa vi risponda (se non chiama i Carabinieri prima) “Il lieto fine”. Un denominatore comune a tutte le storie, siano queste La Bella e la Bestia, Il gobbo di Notre Dame oppure Il Re Leone, è che i protagonisti, in un modo o nell’altro, concludono le proprie vicissitudini in maniera positiva ed appagante. Viceversa, gli antagonisti finiscono in tragedia (Gaston, Frollo e Scar muoiono, tutti e tre iconicamente cadendo da qualche parte).
Nell’universo Disney regna una sorta di karma, di giustizia immanente invincibile ed inattaccabile: i buoni finiranno bene, i cattivi male. Il comportamento dei personaggi è diretto responsabile dell’esito delle loro azioni, del loro – se vogliamo – destino. Questo tipo di “sistema” è parte integrante dell’obiettivo educativo della cinematografia Disney, e di per sé non cozza con la narrativa (i film Disney sono, se vogliamo, “fiabe moderne”). Non è incoerente e non è problematico.
Ciò che è problematico, però, è quando questo approccio alla giustizia e questa mentalità si diffondono al di fuori del Disneyverse, nel mondo reale.
La just world hypothesis, o just world theory (l’ipotesi del mondo giusto), si può sintetizzare in questo modo: se ti comporti male, ti succede qualcosa di brutto; ti è successo qualcosa di brutto, dunque ti sei comportato male. Chi è un po’ versato in logica avrà riconosciuto un’affermazione del conseguente, una fallacia del ragionamento nota ed analizzata ovunque in letteratura. Al di là della critica formale alla just world theory, ciò che ne fa un bias (ovvero un “errore” mentale) pericoloso sono le sue – potremmo dire – applicazioni. Quella forse più importante e famosa è il cosiddetto victim blaming, che si può riassumere in una frase: “Se l’è cercata”. Fenomeno vasto e complesso, esplode di solito intorno a episodi di femminicidio o più in generale in relazione a tematiche “accese”: “Perché dovremmo aiutarli? Hanno deciso loro di venire in mare!” ne è un esempio lampante, così come “Aveva una minigonna, un po’ è colpa sua”.
Le radici della just world theory affondano nella convinzione che esista, come nel Disneyverse, una giustizia universale e operativa, che precipita i crudeli e solleva i giusti, abbatte il male e protegge il bene. Se ti è successo qualcosa di brutto (e.g., sei stato pestato, oppure ti ha preso fuoco casa) è perché, in fondo, te lo sei meritato. Hai fatto qualcosa di altrettanto brutto e – anche questa è una frase ricorrente – “il karma ti ha punito”. Devi aver avuto una parte nella tua sciagura, perché d’altro canto non può essere altrimenti, come si spiegherebbe che a te sì e a me, che sono sempre stato giusto e buono, no? La just world theory instilla un senso di sicurezza in chi la sostiene: la certezza che, rimanendo sempre sulla retta via, non si incapperà mai in problemi, difficoltà o ingiustizie.
Eppure, tornando al discorso iniziale, ci sono poche certezze nella vita, e questa è un’altra di quelle: che le disgrazie succedono, che tu sia buono, cattivo, santo o diavolo; che talvolta la luce perde e le tenebre vincono; che chi si comporta male non sempre riceve la giusta punizione. La just world theory è attaccata da un problema evidente: il mondo – questo ce lo diceva già Voltaire nel Candido – non è il miglior mondo possibile. E di certo nemmeno quello più giusto. Lasciate alla Disney ciò che è della Disney (cioè, fra non molto, tutto).
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