Il film di Guillermo del Toro porta la storia di Frankenstein su un terreno profondamente emotivo, dove la sofferenza, il senso di colpa e le radici dell’identità emergono prepotentemente. La figura della “Creatura” diventa un simbolo delle parti più vulnerabili di ognuno, quelle che spesso vengono ignorate o giudicate senza pietà. Andiamo a snocciolare tutto, am non prima di conoscere cosa ci aspetterà in futuro!
C’è un lato di Frankenstein che nessuno vuole guardare davvero
Nel rapporto tormentato con Victor affiorano dinamiche che rimandano alla famiglia, allo sguardo che costruisce (o distrugge) l’autostima, e alle ferite che si tramandano senza volerlo.
La psicologia in Frankenstein occupa un ruolo centrale nel film di Del Toro, che rilegge la storia di Mary Shelley mettendo in primo piano ciò che normalmente resta in ombra: l’umanità nascosta dietro la Creatura (perché ricordiamo, non ha un nome) e il dolore che segna Victor molto prima della sua impresa scientifica. Ogni gesto, ogni fuga, ogni rifiuto porta con sé l’eco di qualcosa di più antico, come se ciò che accade nel laboratorio fosse solo la superficie di un malessere più profondo.
Il cognome Frankenstein, che secondo alcune fonti può significare “Roccia degli uomini liberi”, introduce già un’idea chiave: Victor tenta di liberare l’essere umano dalla morte, ma la sua corsa verso questo obiettivo finisce per incatenare tutti — lui stesso per primo.

L’interiorità che emerge dal film rivela che la Creatura non è soltanto un esperimento fallito: è il Sé autentico respinto, il bambino che non ottiene quello sguardo che gli permette di sentirsi reale. E nella reazione violenta di Victor emerge qualcosa che somiglia fin troppo al comportamento di un genitore che punisce ciò che non rientra nel proprio ideale.
E nel film, questo, si vede chiaramente dalle punizioni fisiche che il padre infligge al piccolo Victor, prima e dopo la morte della madre.
Del Toro lascia intravedere che Victor ripete schemi familiari: il suo stesso padre lo giudicava con distacco, e quel modello si ripresenta in modo quasi automatico nel rapporto con la Creatura. Si crea così una catena che passa da una generazione all’altra, una spirale fatta di aspettative mai soddisfatte e di imperfezioni considerate intollerabili.
È proprio per questo Victor preferisce distruggere il laboratorio e la sua creazione piuttosto che accettare ciò che non riesce a controllare del tutto.

La scelta di collocare la Creatura nelle profondità del laboratorio accentua l’idea di un “inconscio” che Victor non vuole affrontare. Ogni rumore, ogni sussurro proveniente da lì sotto sembra suggerire che il vero mostro non è l’essere cucito pezzo per pezzo, ma ciò che viene negato e nascosto perché troppo doloroso da riconoscere.
Leggendo online, credo che uno dei simboli più incisivi del film, la faccia di Medusa, sia passata troppo in sordina. Guardarla direttamente pietrifica, ma vederla indirettamente permette di affrontarla. È un richiamo evidente al modo in cui la Creatura deve essere “vista”: non attraverso la sua apparenza, ma filtrata dalla sua innocenza, dal suo bisogno di contatto.
La psicologia in Frankenstein usa questo simbolo per suggerire che certe verità dell’animo umano possono essere accolte solo con delicatezza, quasi di lato, altrimenti diventano insopportabili.
Poi arriva la parte più bella e commovente dell’intero film, insieme al finale liberatorio: la scena con il vecchio cieco, che rappresenta il momento di svolta. È il primo che riconosce la Creatura in base a ciò che fa, non in base a come appare. Qui Del Toro mostra come l’identità sia qualcosa che nasce sempre nello sguardo dell’altro: un processo di co-costruzione.

Quando quello sguardo è accogliente, l’essere fiorisce; quando è disgustato o pieno di paura, la Creatura (come tante persone nella vita reale) interiorizza quel giudizio e finisce per accettare una versione deformata di sé.
In questo passaggio la il film tocca un punto universale: ci vediamo come crediamo di essere visti. E ciò che Victor rifiuta di guardare con umanità diventa inevitabilmente qualcosa di mostruoso, non per sua natura, ma come conseguenza dello sguardo che lo definisce. Basta un occhio diverso, come quello del vecchio, per far emergere tutta la fragilità che stava aspettando di essere riconosciuta.
Da lì in avanti, ogni gesto della Creatura sembra un tentativo di capire chi è davvero.
Forse, la distinzione tra mostro e uomo è molto più sottile di quanto appaia. In certi momenti, addirittura, sembra che sia Victor, più che la Creatura, a temere di vedere se stesso per ciò che è: qualcuno che lotta contro un dolore più grande di lui, ma che non ha mai imparato ad affrontarlo senza distruggere ciò che tocca.





