Nelle ultime settimane si è parlato tanto del Fertility Day, ma soprattutto della sua campagna di comunicazione, che a giudizio praticamente unanime è stata un totale fallimento. Ora, vuoi che il tema è di quelli che da noi sono ancora tabù – se solo esprimi un concetto accostabile a “educazione sessuale nelle scuole” buona parte della popolazione grida subito allo scandalo e invoca lo spettro dell’inesistente “teoria gender” – o vuoi perché il messaggio, già delicato di suo, non è stato espresso chiaramente, è scoppiato un putiferio.
Cominciamo subito col dire che la campagna era oggettivamente una roba indefinibile, perché vedendo le varie cartoline prodotte non si capiva bene quale fosse l’obiettivo che si voleva raggiungere. Il ministro Lorenzin diceva che il Fertility Day aveva scopo informativo, quindi invitare il pubblico a informarsi in merito alla fertilità e alla natalità; ma il messaggio che arrivava era invece quello di una vera campagna di promozione delle nascite. Dunque, se lo scopo è dire una cosa ma si veicola un altro messaggio, si è chiaramente fatto qualcosa di sbagliato.
Spezziamo giusto una piccola lancia: sui social in molti hanno gridato ad una campagna di stampo fascista, di uno Stato che entra nella privacy delle persone, che offende la dignità della donna e cose del genere. In realtà, il tema demografico per uno Stato è di fondamentale importanza, di quelli che decidono se un paese è ricco o povero o lo sarà in futuro.
Semplificando in maniera vergognosa la questione: se non c’è un adeguato ricambio generazionale, nel giro di un paio di decenni mancherà la forza-lavoro per sostenere tutto un sistema di welfare che si basa sui contributi erariali; al contrario, i problemi di sovrappopolazione creano difficoltà sociali nella somministrazione di questi servizi a tutta la popolazione. Adesso capite bene quando sia importante il tema, e che quindi in fondo è legittimo per uno Stato interessarsi alla natalità della sua popolazione e incoraggiarla o scoraggiarla di conseguenza. Per approfondire questo tema vi consigliamo la lettura di un libro del filosofo francese Michel Foucault, dal titolo “La volontà di sapere“.
Infatti, a dimostrare che ciò che accade nel nostro letto è anche affare di Stato, è salito alla ribalta questo spot danese. Si tratta, bene precisarlo, di una campagna, una sorta di “promozione”, fatta dalla Spies Travel, compagnia aerea danese. È importante dirlo perché un privato ha dei margini più ampi rispetto a una comunicazione istituzionale: più essere più spinto, più “scorretto”.
Si tratta di una campagna decisamente esplicita, che non usa mezzi termini. Ma, per quanto geniale sia, da sola non sarebbe bastata: infatti si parla di buoni per una vacanza per “partecipare alla gara” e, alla fine, dell’estrazione di materiale utile per il neonato. Questo è totalmente assente nell’impostazione del Fertility Day italiano; e non si tratta di un punto secondario in una campagna istituzionale, ma in questo momento ci stiamo concentrando sulla comunicazione e non possiamo che accennarvi così, di volata. Tuttavia, questo spot ci aiuta a capire anche la diversità dell’uditorio di riferimento, ovvero che in Danimarca ci si può permettere un tipo di comunicazione su certi argomenti che in Italia non è possibile in quanto si tratta di tabù. Ad esempio, fra le cartoline emesse dal nostro Ministero della Salute c’era la seguente, che possiede un’ironia di base accostabile a quella dello spot danese. Eppure le polemiche non l’hanno risparmiata.
La comunicazione ha i suoi specialisti
E qui arriviamo al punto centrale: per eventi comunicativi, soprattutto quando sono di così larga scala, non ci si può improvvisare ciò che non si è. La comunicazione è un mestiere vero, con figure specifiche che sanno come muoversi e come costruire messaggi adeguati allo scopo e alla platea. Un esperto, uno che ha studiato un minimo nell’ambito, avrebbe saputo che un argomento del genere, da noi, va trattato in un certo modo. Ma se a capo della comunicazione di un ente importante come un ministero ci sta un avvocato, è ovvio che si cade in errori da principianti come questo. Sarebbe bastato un laureato triennale della tanto bistrattata Scienze della comunicazione – laurea che un altro ministro di un altro governo definì esplicitamente come “inutile”… e si vedono i risultati – per capire che quelle cartoline non andavano assolutamente bene. La campagna non solo manca di “tatto” su un argomento da noi ancora così delicato, ma manca di omogeneità: alcune immagini hanno un messaggio fin troppo deciso, altre cercano di giocare sull’umorismo; traspare una certa indecisione sul messaggio da mandare e la campagna manca così clamorosamente il suo target.
Per non parlare poi del volantino uscito pochi giorni fa, che odora anche un po’ di razzismo, in cui si riciclano immagini già usate per campagne commerciali all’estero: possibile che non si siano potute fare due foto invece di usare una ricerca su Google Immagini? La cosa denota un pressappochismo, anche sul lato tecnico, difficilmente ipotizzabile per uno specialista della comunicazione.
Un buon esempio di comunicazione
Dall’altra parte, nei giorni scorsi è salito alla ribalta lo spot con Checco Zalone sul delicato tema della ricerca contro la SMA (Atrofia muscolare spinale). Intanto vediamolo, poi noteremo i punti che ne fanno un esempio di buona comunicazione.
Intanto, il video è coerente – cosa che mancava alla campagna del Fertility Day: si vuole veicolare il messaggio in maniera diversa, ironica, e dunque il testimonial è un comico; chi lo guarda si aspetta, sin da quando vede Zalone, che le cose che accadranno dovranno essere prese come uno sketch, una battuta. Ci fosse stato Giancarlo Giannini al suo posto, lo spot avrebbe perso molta efficacia e sarebbe dovuto essere strutturato in maniera completamente diversa.
Inoltre, sempre il linea con la comunicazione “laterale” che ci si prefigge, la narrazione non è incentrata sul ragazzo affetto da SMA, ma sullo stesso Zalone, che incarna degli atteggiamenti e dei pensieri che almeno una volta abbiamo avuto tutti. Per questo il suo “appello” alla ricerca – si badi bene, anche questo in qualche modo espresso lateralmente – è efficace: Zalone rappresenta quello che, almeno una volta, siamo stati tutti noi, quindi anche noi possiamo “chiamare la ricerca”; messa in un contesto del genere, “chiamare la ricerca” è una cosa assolutamente normale e spontanea. In questo modo, inoltre, il messaggio è adeguato all’uditorio a cui è rivolto, proprio perché quella platea è inserita nel meccanismo comunicativo attraverso il personaggio di Zalone e i suoi comportamenti. Di conseguenza, lo spot comunica esattamente quello che vuole comunicare e riesce ad arrivare al target. È un perfetto esempio di storytelling.
La comunicazione pagata in visibilità
Chiusa questa parentesi, torniamo al Ministro Lorenzin che, resosi conto del problema, ha chiesto la collaborazione dei “creativi” della comunicazione. Ma l’ha fatto chiedendolo a titolo gratuito. Giustamente, c’è stata una levata di scudi e un’aspra critica al Ministro. In questo modo, la Lorenzin rischia di passare alla storia come colei che ha “istituzionalizzato” i pagamenti in visibilità.
Ma i pagamenti in visibilità non li ha mica inventati lei. È vero che quelle parole pesano molto di più in quanto uscite dalla bocca di un esponente della cosa pubblica, ma se un Ministro si sente di poter dire una cosa del genere a cuor leggero è perché c’è un retroterra culturale ben piantato che si comporta allo stesso modo.
Noi del Bosone abbiamo avuto le nostre esperienze nel settore della comunicazione. Alcuni di noi hanno anche svolto studi universitari nel merito. Ma ci troviamo davanti ad affermazioni come quella della Lorenzin tutti i giorni. Quante volte ci siamo sentiti dire frasi del tipo:
– Mio cuggino mi fa il sito uguale e non si fa pagare.
– Quello fa video su Youtube, capirai che “lavoro”…
– Sì, mo ti vuoi far pagare per disegnare un logo? E che c’hai, le matite d’oro?
– Ma tutti ‘sti soldi per due foto? Ma sei impazzito? Che me le faccio da solo col cellulare e vengono anche meglio!
– Scrivi per un giornale o un sito web? Certo, sempre meglio che lavorare…
Se siete sia fra quelli che hanno detto una frase del genere e sia fra quelli che hanno criticato la Lorenzin per la sua uscita, guardatevi un attimo allo specchio. Noi speriamo solo che una vicenda del genere, in cui si sono visti i risultati pessimi di una comunicazione affidata a persone che non sono professioniste del settore – costata tra l’altro anche soldi pubblici, ma questo è un dettaglio… – vi faccia riflettere, ma riflettere davvero. La comunicazione è un mestiere come tutti quanti gli altri. Le professionalità hanno il diritto di essere retribuite per il lavoro svolto in base alla propria competenza; competenza che non si può improvvisare da un giorno all’altro.