Stranger Things: perché ci piace così tanto? L’anatomia di un successo

Stranger Things è diventata uno di quei rari fenomeni culturali che riescono a unire generazioni diverse, accendendo discussioni, playlist e perfino mode che sembravano archiviate. La sua forza non è legata a un solo elemento, ma a un mix calibrato di emozioni, scelte narrative e dettagli che riportano in vita un immaginario intero, pur parlando anche a chi non ha mai visto un VHS. Di seguito cercherò di fare un’analisi di questo fenomeno che secondo me è importantissimo.

La verità inaspettata dietro il magnetismo di Stranger Things

La serie TV Stranger Things, dalla prima all’ultima serie in corso, funziona perché riesce a incastrare in un’unica cornice nostalgia, mistero, estetica riconoscibile e personaggi che il pubblico guarda crescere come se facessero parte della propria quotidianità.

Il cuore dell’operazione è la nostalgia, trattata come motore narrativo e non come semplice accessorio estetico. Invece di “parlare degli anni ’80”, la serie sembra davvero uscita dagli anni ’80, proprio come volevano i Duffer Brothers. Il loro obiettivo era ricreare quella sensazione viscerale che si prova davanti ai film di Spielberg, Carpenter o King, i loro modelli dichiarati. Non sorprende che la critica abbia definito lo show come “scritto da Stephen King, diretto da Spielberg e musicato da Carpenter”.

Il pubblico più adulto riconosce immediatamente queste vibrazioni, mentre quello più giovane viene trascinato in un mondo “vintage” che, pur non appartenendogli, risulta stranamente familiare. È il classico effetto di quando ci si accorge che ciò che affascina non sono gli anni ’80 in sé, ma quel modo di raccontare storie che oggi sembra quasi un linguaggio universale.

il mind flayer, mostro iconico della serie tv stranger things in una scena delle prime 4 stagioni

Questa atmosfera emotiva si sposa perfettamente con un altro punto chiave: il modello di fruizione. Stranger Things è uno dei titoli simbolo del binge-watching moderno. Netflix ha rilasciato le stagioni in blocco, permettendo agli spettatori di immergersi nella storia senza pause, un dettaglio che ha contribuito a creare un legame particolare con i personaggi.

Guardare tre, cinque, dieci episodi di Stranger Things senza interruzioni porta a una forma di coinvolgimento quasi fisico, una specie di vicinanza che i vecchi format settimanali non sempre riuscivano a generare. Non è un caso che la quarta stagione abbia superato i 287 milioni di ore viste nel solo weekend di debutto.

Parte di quella connessione nasce dal cast giovane. Hollywood è piena di attori bambini, ma vederli restare nella stessa serie per quasi dieci anni è raro. Millie Bobby Brown, che a 12 anni ha interpretato una Undici quasi muta ma potentissima, è diventata il volto emotivo della serie in pochissimo tempo.

tutto il cast di stranger things in una scena del film

Il pubblico l’ha osservata crescere (e con lei Finn Wolfhard, Gaten Matarazzo, Caleb McLaughlin e Noah Schnapp) quasi come se stesse seguendo un gruppo di ragazzi del quartiere, ma immersi in un contesto che invita a leggere qualcosa di più profondo nei loro cambiamenti. Anche gli attori lo hanno percepito: Wolfhard ha raccontato che a 13 anni era “incredibile e inconsciamente terrificante” essere riconosciuto da tutti.

A creare l’identità di Stranger Things contribuisce anche la colonna sonora, che non accompagna la serie: la definisce. I sintetizzatori di Kyle Dixon e Michael Stein sono un personaggio a tutti gli effetti, un respiro elettronico che porta addosso il profumo degli anni ’80 ma non risulta mai datato. Il tema principale, costruito con oltre 25 sintetizzatori stratificati, ha vinto un Emmy e generato un numero incalcolabile di cover, remix e reinterpretazioni.

Si percepisce subito che la musica non fa da sfondo: marca le emozioni, crea tensione e dà alla serie quel tocco inconfondibile che persino chi non la guarda sa riconoscere.

un fermo immagine del personaggio max che in una scena di stranger things scappa da vecna con la canzone running up that hills in sottofondo

E se uno dei simboli musicali originali è la sigla, uno dei fenomeni più sorprendenti è stato il “caso Kate Bush”. “Running Up That Hill” è risalita alle classifiche globali quasi quarant’anni dopo la sua uscita grazie alla scena iconica con Max. Il brano è diventato una sorta di manifesto emotivo, soprattutto per la Gen Z, e ha raggiunto oltre 1,5 miliardi di stream.

È la prova di come Stranger Things non si limiti a usare la cultura pop: la rimodella, la riaffaccia e le dà nuova vita, anche quando riguarda artisti che non sapevano nemmeno cosa fosse TikTok.

Accanto a tutto questo, la serie ha acceso un interesse colossale per Dungeons & Dragons. Il gioco, per anni associato a gruppi di “nerd introversi”, è diventato improvvisamente mainstream. Le ricerche su Google per “come giocare a D&D” sono esplose del 600% con la quarta stagione.

Non si tratta però solo di estetica: per i Duffer, le dinamiche del gioco rispecchiano perfettamente quelle dei personaggi (spoiler: secondo me la seconda parte dell’ultima stagione avrà molto a che fare con questo gioco), creando un parallelismo che permette agli spettatori di capire meglio le loro scelte, anche quando non vengono dette chiaramente.

A rendere il tutto ancora più coinvolgente è la capacità della serie di fondere generi diversi: avventura, horror con il Sottosopra, soprannaturale, dramma. Ogni fascia d’età trova un pezzo di sé dentro quelle storie: i bambini nelle avventure alla E.T., gli adolescenti nei richiami horror alla Carpenter, gli adulti nelle atmosfere alla Incontri ravvicinati del terzo tipo. È una struttura pensata per parlare a tutti, ma in modo diverso per ciascuno.

Gianluca Cobucci

La sua vita è cambiata quando ha letto una frase di William Edwards Deming: "Senza dati sei solo un'altra persona con un'opinione". Da quel momento ha iniziato a leggere e approfondire perché ha fame di conoscenza. Sa a memoria "Il Silmarillion" e cerca di diventare uno Jedi.
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