La prima volta che sentii questa parola, Hikikomori, e ne cercai sul web il significato, mi ero iscritta da pochissimi giorni al mio corso di laurea. Tutto era assolutamente nuovo e problemi come l’ansia da prestazione che si possono avere prima di un esame, ancora molto lontani. Conobbi una ragazza della mia età e, sin da subito, capii quanto fosse particolarmente timida e introversa.

Diceva di odiare la società moderna, di disprezzare tutto ciò che la caratterizzava e di come non riuscisse a fidarsi di niente e nessuno. E poi, un giorno come tanti, smisi di vederla. Dopo diverso tempo senza riuscire a mettermi in contatto con lei, decisi di andare direttamente a casa sua per vederla di persona. Non mi sarei aspettata nulla di tutto ciò che mi si prospettò davanti. Trovai una mamma, sola, stanca, disperata e impotente di fronte ad una porta, quella della sua camera, chiusa a chiave e dalla quale la mia amica rifiutava di uscire. Parlava per monosillabi e, quando provammo a forzare il chiavistello, lei c’intimò di desistere perché altrimenti si sarebbe tagliata le vene.

I giorni che si susseguirono a quell’evento si trasformarono in mesi e, dopo svariati tentativi, riuscii finalmente ad ottenere un dialogo attraverso una chat online e fu lì che mi raccontò ogni cosa. Mi disse che si sentiva come schiacciare dalle aspettative che tutti avevano per lei, che non riusciva a sopportare l’idea di affrontare un esame e la sua conseguente ansia. Mi descrisse il malessere quasi fisico che provava nello stare vicino alla gente, di quanto la infastidissero i loro discorsi, del disincanto nei confronti di qualsiasi cosa e dell’assoluta mancanza di desiderio di affermarsi nel mondo del lavoro. Preferiva vivere di notte anziché di giorno e rimanere in contatto con pochissime persone esclusivamente attraverso il web. Mi suggerì di desistere e di non cercare di cambiarla, che, in fin dei conti, sua madre non la rimproverava per questo e che quindi poteva continuare a vivere in quel modo per tutta la vita. Eppure, quella mamma, non è mai restata in silenzio come la mia amica ha sempre creduto. Fu lei stessa a menzionarmi per la prima quella parola, hikikomori, suggerita a sua volta dallo psicologo che contattò per cercare di aiutare sua figlia. Da allora è diventato tutto una ricerca senza fine sull’argomento, trovare a tutti costi qualcosa a cui farla aggrappare per farla uscire di sua spontanea volontà da quella maledetta stanza.
Con questa mia esperienza non voglio cercare di delineare un quadro clinico della patologia, non essendo io un dottore specializzato nel settore, ma, piuttosto, vorrei poter suggerire qualche linea di comportamento da adottare nei confronti di quelle persone che non sono eremite e non sono asociali. Avere a che fare con loro, con gli hikikomori, è sicuramente un compito delicato per chiunque dal momento che ci si ritrova a doversi relazionare con soggetti profondamente sfiduciati e disillusi dai rapporti interpersonali. Che cosa fare, quindi, per non essere respinti?
Proverò a stipulare una lista di comportamenti che ho constato avere un buon effetto su quelle persone che hanno deciso di fare della loro camera il piccolo mondo in cui vivere ed essere un/a hikikomori.
- Non sminuire mai la loro sofferenza: non banalizzare le loro paure e riconoscerle per quelle che sono, ossia paure come possono essere tutte quelle più comuni e che siamo abituati a sentire. Quasi tutti riusciamo ad immedesimarci in un aracnofobo. Allora perché sarebbe così difficile farlo nei confronti di un hikikomori?
- Partire dalla famiglia e dagli amici più stretti: purtroppo, anche nella mia personale esperienza, ho potuto constatare quanto il problema non era legato solo al singolo individuo bensì anche al genitore che gli era accanto. Bisognerebbe, quindi, agire sull’intera cornice che avvolge il quadro, composta da genitori, professori, amici e lavorare con loro su come allentare la pressione di realizzazione sociale che è uno dei motivi alla base dell’isolamento di un hikikomori. Fare in modo che il loro comportamento non si trasformi in una sorta di pressione da cui allontanarsi.
- Sincerità: mai mentire o cercare qualche sotterfugio per avvicinarsi a un hikikomori! Sono persone particolarmente sensibili e molto intelligenti. Noteranno subito qualsiasi comportamento strano volto ad “aiutarli” a loro insaputa e ciò creerà inevitabilmente un’ulteriore chiusura ancora più difficile da scalfire. Ma ciò non significa evitare sempre il conflitto! A volte una sana litigata può servire a smuoverli dal guscio nel quale si sono rifugiati, ma è bene farlo senza che ciò si trasformi in una lotta per la prevaricazione. Che sia, piuttosto, un confronto genuino, alla pari e mai una lite tra persona sana e persona malata.
- Mai demordere con loro: un hikikomori difficilmente ti cercherà per parlare. Quindi è necessario coinvolgerli sempre, anche nelle cose più stupide, anche solo per condividere una barzelletta demenziale. Farli evadere dai loro schemi, dalla loro routine e mostrare loro quanto bella e divertente possa essere la vita se vissuta assieme agli altri. Mai arrendersi, mai darli per perduti perché non si sa mai quale potrebbe essere la parola, la risata o il messaggio che li spingerà a ritrovare quella fiducia che hanno perso nei confronti del mondo intero.
- Tutti possiamo diventare hikikomori: anche se qualcuno afferma il contrario. Ma è bene ricordare che l’hikikomori è una reazione difensiva che mira a proteggere il proprio ego dalle delusioni esterne, che siano di tipo lavorativo o di rapporti interpersonali. Alcuni ricorrono all’alcool, altri alla droga e poi c’è chi è “predisposto” a questo particolare tipo di dipendenza. Il punto è… che tutti ci forniamo di una sorta di scudo personale per reagire al dolore e, se a ciò si aggiunge una totale mancanza di comprensione da parte delle persone più vicine, capiamo come quello scudo possa facilmente trasformarsi nel buio della propria camera. È quindi necessario mostrare rispetto, cercare di documentarsi e partire dal presupposto che potrebbe accadere a chiunque. Anche a noi stessi…
In conclusione, vorrei tirare qualche somma. Sono circa 100 mila gli italiani che hanno scelto di chiudere le porte al mondo, un fenomeno che coinvolge generalmente persone dai 14 ai 50 anni di età, e che solo da poco nel nostro Paese sta trovando posto nell’informazione sociale col suo giusto nome. Perché, seppur il termine hikikomori derivi dal giapponese (lett. stare in disparte), denomina un comportamento ormai affrontato dagli psicologi e psichiatri di tutto il mondo. L’unica arma che abbiamo a disposizione è l’informazione, per fare in modo…
che tale fenomeno non si diffonda a tal punto da generare uno stigma sociale nei confronti di chi si trova in questa condizione, nonché dei suoi cari, che eviteranno così di chiedere aiuto per paura di essere giudicati negativamente.
Marco Crepaldi, Hikikomori Italia
Paola.
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