Padre di tutti i detective, capostipite di tutti gli investigatori e abita a Londra, in Baker Street, al 221B.
Di chi stiamo parlando? Elementare, Watson: Sherlock Holmes!
Creato nel 1887 dalla penna dell’inglese Sir Arthur Conan Doyle, Sherlock Holmes ha ispirato moltissimi registi, che hanno provato a restituire, con la macchina da presa, tutto il fascino del celebre detective.
Nell’ultimo decennio, ricordiamo i due film portati al cinema da Guy Ritchie che vedono nei panni dei due protagonisti, Sherlock Holmes e il dottor Watson, rispettivamente Robert Downey Jr e Jude Law.
Nel piccolo schermo troviamo due serie che immaginano come potrebbe essere Sherlock Holmes se si ritrovasse a camminare nella Londra di oggi. Si tratta di “Sherlock” e “Elementary”.
Piccola chicca: i due Sherlock della tv, in tempi non sospetti, recitarono insieme nel film Frankestein, di cui sono i soli protagonisti.
Cosa ha mantenuto il geniale detective nei suoi due alter ego?
Benedict Cumberbatch interpreta Sherlock nell’omonima serie della BBC. Fisicamente, l’attore rispecchia molto il personaggio letterario, così come sir Doyle ce lo descrive:
il suo sguardo è acuto e penetrante, e il naso sottile aquilino conferiva alla sua espressione un’aria vigile e decisa. Il mento era originante e squadrato, tipico dell’uomo d’azione. Le mani, invariabilmente macchiate d’inchiostro e di scoloriture provocate dagli acidi, possedevano un tocco straordinariamente delicato…
Numerosi sono anche i tratti caratteriali che accomunano lo Sherlock di oggi con il suo alter ego di carta. Nel primo episodio della serie, il dottor Watson scopre che il suo futuro coinquilino si dedica a prendere a colpi i cadaveri per studiare la comparsa dei lividi post mortem, come accade tra le pagine di “Uno Studio in Rosso”, romanzo in cui Holmes appare per la prima volta. Inoltre, entrambi gli Sherlock sono appassionati violinisti, e nessuno dei due appare interessato a bazzecole come il fatto che la Terra giri intorno al Sole.
Entrambi hanno qualche problema di dipendenza, e la loro figura professionale, il consulente investigativo, rappresenta il più importante punto di contatto, oltre all’incredibile capacità di osservazione e alla perfetta abilità deduttiva. A tutto questo possiamo aggiungere una sostanziale indifferenza nei confronti del gentil sesso, indifferenza che, nel caso di Sherlock /Benedict, non è poi così radicata.
Ma qui le somiglianze finiscono. Lo Sherlock di Sir Doyle è tutto d’un pezzo: corretto, coraggioso, leale, ma poco umano. La serie della BBC ci accompagna invece a scoprire uno Sherlock carico di umanità e di fragilità: uno Sherlock che soffre nel ferire le persone da cui è amato, che è pronto a dare la vita per loro. Potremmo perfino pensare che il nostro protagonista vorrebbe essere come tutti gli altri, vorrebbe avere le stesse reazioni, la stessa emotività. Tuttavia, sa che questo è impossibile, e maschera il suo tormento con una sorta di sufficienza.
Il dottor Watson scalfisce per primo questa corazza, costruendo con Sherlock qualcosa che finisce con il diventare una vera amicizia. Le loro pagliacciate ci fanno sorridere, e quasi intuiamo, in questo Sherlock così allergico ai legami ( con il suo stesso fratello ha un rapporto tormentatissimo), il giovane allegro che potrebbe essere.
D’altro canto, uno Sherlock per tanti versi differente si può ritrovare in Elementary, serie tv americana che dopo aver subito la paura della cancellazione riprende in pieno ritmo, rinnovata per una settima stagione probabilmente in arrivo per la fine del prossimo anno.
Direttamente dalla ben più rumorosa New York, il nostro detective ci viene presentato da subito in uno stato di defaillance, colpito dai postumi psicologici e sociali del recupero da una forte dipendenza da stupefacenti. Non ci troviamo particolarmente sorpresi da questo, però, se ricordiamo l’incipit di “Il segno dei quattro”: Doyle vi scrive, per mano del dottor Watson, “Sherlock Holmes prese il flacone ch’era sulla mensola del camino, tolse la siringa dall’accurato astuccio di marocchino e con le dita lunghe e nervose preparò l’ago. [..] Tre volte al giorno, per molti mesi, avevo assistito a questa scena”.
Finito il rehab, il padre Morland, con cui si può dire abbia un rapporto tutt’altro che idilliaco, affida il figlio alle cure della ex chirurgo Joan Watson. La donna, che non condivide il genere e il passato del fedele compagno conosciuto tra le pagine di Conan Doyle, ha intrapreso la carriera di assistente post-riabilitazione. Il suo compito è quindi quello di vegliare sul ritorno alla vita di tutti i giorni del nostro Sherlock, prevenendo eventuali ricadute e aiutando il nostro detective a non perseverare nel suo vizio.
Non viene difficile mettersi nei panni dell’investigatore, che non nutre particolare simpatia per questa donna letteralmente piombata nella sua vita senza essere stata invitata, ma nel corso delle avventure che attenderanno la coppia il legame tra i due diverrà forte e prezioso.
Anche in questo Sherlock Holmes interpretato da un brillante e mai inappropriato Jonny Lee Miller infatti ad emergere è una profonda umanità, che pur nascondendosi dietro la grande corazza della più profonda delle sociopatie si dimostra parte integrante della caratterizzazione del personaggio.
La droga infatti, al contrario di quanto possiamo intravedere nella serie britannica e nei racconti, è usata dal protagonista in conseguenza di una grande perdita affettiva subita nel recente passato, e non come svago o come espediente alla noia e alla piattezza del genere umano. Sherlock è visceralmente uomo, che conosce l’amore, il dolore, e comprende di non essere infallibile.
Concludendo questo primo spaccato trasversale del confronto tra le versioni dell’investigatore più brillante di sempre vi poniamo una domanda: vi sentite più #teamSherlock o #teamElementary? Fate sentire la vostra voce nei commenti, su facebook o nel sondaggio su instagram.
Ariadnes e Martina Cappello
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