Le radici del ratto è una delle tipiche leggende romane, un sospetto tra mito e realtà il cui racconto è stato ricostruito da tre storici dell’antichità: Tito Livio, Plutarco e Dionigi di Alicarnasso.
Leggende Romane: Le radici del ratto
Se pur alcune modifiche nelle vicende, le linee di fondo concordo e tra queste vi è la motivazione dell’evento del racconto.
Roma fu fondata, come sappiamo dalla storia, da Romolo e Remo; Romolo fondò una città sul monte Palatino di soli maschi, tutti pastori esuli di villaggi vicini, malfattori e poco di buono, oppure schiavi fuggiti dai loro padroni.
Il diritto di asilo concesso entro le mura ai transfughi e ai latitanti accorsi dai quattro angoli del Lazio favorisce un costante aumento della popolazione, ma Romolo è consapevole che, in assenza di donne capaci di procreare eredi, per la sua gente non vi può essere futuro.
Varie proposte di alleanze matrimoniali furono proposti ai popoli dei quattro angoli del lazio, ma nessuno di questi accettò perchè, si sa, un padre non darebbe mai la mano della propria figlia a un malfattore; particolarmente sdegnati furono i Sabini, in cui la donna ha un ruolo importante e di grande significato.
Alle porte della guerra
Così alle porte di una guerra, giunge una soluzione proposta dal dio Conso, che sussurra alle orecchie del re la garanzia della fertilità romana.
Tra le donne che esultavano dalle gradinate alle esibizioni sportive e musicali, si distinsero le Sabine per bellezza e grazia;
Il piano di Remolo era che nessuna donna maritata dovrà essere toccata, mentre alle fanciulle rapite verranno usate senza risparmio considerazione e rispetto, al fine di addolcire la loro entrata nella comunità di Roma e spingerle a consegnare spontaneamente il cuore a coloro cui sono ora costrette a cedere il corpo.
Il numero delle vergini catturate è elevato, mentre i padri, sopraffatti dall’irruenza dei Romani, vengono lasciati fuggire insieme a ciò che resta delle loro famiglie. Solo un particolare impedisce di decretare il totale successo dell’operazione.
Nella confusione generale è stata per errore rapita anche una donna sabina che risulta già sposata. Il suo nome è Ersilia. Avvertito dell’accaduto, il primo re di Roma si assumerà direttamente la responsabilità dello sbaglio prendendola in moglie.
L’inizio dello scontro
Tuttavia iniziò la guerra tra i popoli: i primi ad attaccare sono i Ceniniensi guidati dal re Acrone, la cui impazienza si rivelerà fatale. Deciso a chiudere rapidamente la partita, Acrone affronta da solo Romolo in duello e viene da questi ucciso. Privati del loro sovrano, i Ceninensi sbandano e sono piegati rapidamente dall’offensiva nemica. Uguale sorte tocca agli Antemniati, che avevano iniziato a razziare il territorio intorno a Roma, e ai Crustumini.
Lo scontro più temuto fu quello con i Sabini, un popolo che non lascia spazio al furore, discendenti degli spartani, furbi ed astuti tanto da corrompere Tarpea, la figlia del comandante della rocca del Campidoglio.
Presi dallo sconforto del tradimento, lo scontro decisivo si consuma nella spianata del Foro, resa un pantano dallo straripamento del fiume che la attraversa. Un lotta nel fango in cui i Romani paiono avere la peggio. Lo stesso Romolo rimane colpito. Ciononostante, i difensori resistono con la forza della disperazione, tentando addirittura di contrattaccare. È in questo momento che le donne si impossessano della scena.
L’intervento delle donne
Guidate da Ersilia, le donne sabine costituite da mogli e figlie irrompono sul campo di battaglia, le stesse donne che prima furono fatte prigioniere e che si sono innamorate dei loro rapitori che le elargivano e riempivano di attenzioni.
Le loro grida disperate nel rimanere vedove e orfane penetrarono i cuori degli uomini, rendendo il motivo della guerra futile e intraprendendo la via della pace.
Romolo e Tito Tazio regneranno insieme sulla nuova entità statuale che si va costituendo e i due immediati successori di Romolo proverranno dalla gente sabina.
Roma assorbirà Cures ma, secondo gli antichi, il ricordo di quest’ultima sopravvivrà nel termine “Quiriti” con il quale i Romani da ora inizieranno a chiamare se stessi e nel toponimo del colle, il Quirinale, destinato ad accogliere l’immigrazione della gente sabina entro le mura dell’Urbe.
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