Chi, in questo mondo, non conosce il famoso gioco Assassin’s Creed? Anche chi non nutre una passione per i videogiochi, di sicuro l’ha sentito nominare almeno un paio di volte. E chi, invece, l’ha amato sin dalla sua prima uscita, non può che associarlo ad una delle sue caratteristiche storiche, un’icona del brand che l’ha reso famoso e indimenticabile. Mi riferisco, ovviamente, alle torri d’osservazione, altresì note come “punti d’osservazione”.
Oggi i fan si dividono tra chi le vede come un elemento a cui non rinunciare assolutamente e chi, d’altro canto, vorrebbe vederle sparire definitivamente! Al di là delle considerazioni personali, bisogna constatare che, a più di dieci anni dalla sua prima apparizione, questa onnipresente meccanica non ha lo stesso effetto che aveva in origine e di rado qualcuno ne appezza ancora il valore ludico o la motivazione alla base del suo inserimento nel videogioco.
Ovviamente, le valutazione dell’utente medio sono, per così dire, di “pancia”: in maniera legittima, il videogiocatore giudica più o meno positivamente qualcosa sulla base di ciò che lui reputa divertente, che lo faccia ridere, spingendolo sempre più a perfezionare il personaggio da lui comandato. Raramente, quindi, le considerazioni riguardano questioni tecniche di game design. Ma, proprio a proposito di ciò, cosa ne pensa il designer che ha originariamente ideato questa “istituzione architettonica” del videogame?
In un’intervista con Geoff Keighley all’E3 2019, Patrice Désilets, è lui l’uomo incriminato, ha cercato di rendere chiari, quali siano stati i motivi che hanno reso le torri d’osservazione apprezzate per quasi due generazioni video-ludiche, prima che il mercato le bollasse come superflue e datate.
Nulla è reale, tutto è lecito. Si basa tutto sull’esplorazione: muoviti, osserva, vedi qualcosa che vuoi raggiungere o scoprire, e vai, sei libero di farlo.
Descrivendo Ancestors, la sua nuova opera in arrivo a fine Agosto, l’autore canadese sintetizza, così, quello che è sempre stato il suo marchio di fabbrica, persino in un’epoca in cui l’open world non era ancora così determinante come lo è oggi. Nei suoi giochi (ricordiamo anche i Prince of Persia firmati da Désilets), il senso della scoperta e l’incentivo all’esplorazione sono sempre stati più determinanti rispetto al sistema di combattimento, in una visione dell’interazione ambientale che doveva essere centrale e predominante.
Ciò diventa palese con il primo Assassin’s Creed, in una rivoluzione video-ludica che iniziò il suo percorso nel 2007: un open world sostanzialmente privo di una vera e propria sfida (tranne per alcuni boss), in cui l’azione principale era l’esplorazione libera e fluida dei luoghi virtuali, delle città e persino delle case. La realizzazione di questo concetto fu permessa sì dall’avanzamento dell’hardware, ma anche da una visione personale e diversa del sandbox.
Assassin’s Creed non premiava (e non premia) l’esploratore più abile o più capace ad usare le armi, ma quello più costante e intrigato da quel mondo costituito da sequenze di movimenti fluidi e liberi.
Io soffro di vertigini. In questo modo, forse, sto solo cercando di guarire me stesso. Ma, di nuovo, il punto fondamentale dello sviluppo creativo è come il tuo avatar interagisce con il mondo di gioco, la costante fluidità del movimento e dell’esplorazione, la libertà: le azioni del principe in Prince of Persia erano fluide, Altair ed Ezio erano molto agili e veloci e, in Ancestors, ho questa scimmia che può andare ovunque. C’è questo sottile piacere che ricerco… Amo la contemplazione, il piacere di osservare per il gusto di farlo. Ecco perché, quando vi faccio salire su una torre a Firenze, vi garantisco poi un momento di osservazione, il momento da ooh, guarda che bello. Questo è il mio stile.
E poi, mentre Désilets ricercava il feedback emotivo, dalla meccanica delle torri otteneva un altro, grande risultato ludico: vi è sempre, infatti, anche una ricompensa materiale garantita dai numerosi punti d’interesse che vengono attivati una volta raggiunta la sommità, come, per esempio, lo sblocco di viaggi rapidi, zone in cui fuggire se inseguiti e così via.
Questa dinamica, però, funziona solo se unita ad una certa facilità e ad un’estrema brevità richiesta per contemplare l’azione stessa: non è un caso se la discesa è stata tagliata con il famoso “salto della fede”. Se però questa scalata smette di essere fluida, la ricompensa emotiva e materiale non è più sufficiente rispetto all’investimento di tempo richiesto e diventa non solo noiosa ma, anche, frustrante: perché attraversare intere regioni, a piedi o con qualsiasi altro mezzo, per dover salire su un punto specifico e sbloccarne altri da raggiungere successivamente? Secondo le varie fan comunity del gioco, quindi, ad essere superata, non è la meccanica in sé quanto, piuttosto, il suo utilizzo errato e privo di visione d’insieme.
C’è chi la pensa così e chi, invece, come già anticipato prima, rimane ancora affezionato ad una delle caratteristiche più famose di un gioco che, nel bene o nel male, ci ha fatto conoscere l’ansia del salto, del premere o meno una semplice X, e cosa significhi aspettare minuti interminabili per assassinare furtivamente una guardia senza far scoppiare necessariamente una guerra. Inutile discutere, quindi, perché alla fine, come nella maggior parte delle discussioni, è solo una questione di gusto e sappiamo tutti cosa dice il proverbio a tal proposito!
C’è chi vorrà lasciarsi andare a quel ooh, guarda che bello quando l’aquila sorvola il punto d’osservazione raggiunto, mostrandoci tutto il paesaggio circostante e chi, invece, ignorerà apertamente il suggerimento e continuerà a correre infischiandosene di tutto il resto. Ma, così facendo, non vengono sbloccati i “viaggi rapidi”? Pazienza!
Ad alcuni piace correre, ad altri viaggiare. A voi l’ardua sentenza!
Paola.
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