Slutshaming nel mondo del cosplay: un problema diffuso

Negli ultimi anni, il fenomeno del cosplay è cresciuto in maniera esponenziale sia in Italia che sul piano internazionale. In tutto il mondo, le convention e gli eventi a tema si sono moltiplicati e ingigantiti, creando sempre più spazi di aggregazione per gli appassionati. Anche online e grazie all’avvento di social come Instagram e TikTok, l’attenzione verso i cosplayer è aumentata sempre di più, al punto che ormai sono parecchi coloro che sono riusciti a trasformare il loro hobby in un lavoro.
Tuttavia questa espansione, impensabile fino a qualche anno fa, ha portato con sé anche dei lati negativi. Uno dei più gravi è senz’altro il diffuso slutshaming (che non è il blackface di cui parlavamo qui anche se ci assomiglia molto) ai danni delle cosplayer di genere femminile che spesso sfocia o è direttamente connesso a vere e proprie molestie sessuali.

Perché fare una distinzione di genere?

Perché sebbene non manchino casi in cui sono stati presi di mira cosplayer di sesso maschile, a livello statistico c’è un evidente trend che vede le ragazze come il target principale di questo fenomeno. Mi preme puntualizzare come nella nostra analisi siano incluse anche le persone trans e non-binary, oltre che quei cosplayer che praticano il crossplay, ovvero che interpretano personaggi di genere opposto al proprio. Si tratta di categorie che finiscono per subire lo stesso genere di atteggiamenti, di frequente conditi da un pizzico di omofobia.

L’argomento è delicato e da cosplayer, per affrontarlo ho voluto basarmi non solo sulla mia esperienza diretta, ma su articoli trovati in rete e sulle testimonianze di decine di utenti di Cosplay Universe, il più importante gruppo Facebook di cosplay italiano. Per questioni di spazio e per mantenere la loro privacy, non citerò direttamente nessuno di questi racconti, che sono stati decine, ma li utilizzerò come fonte per restituirvi un quadro d’insieme più accurato.

Slutshaming: cos’è?

Ma andiamo con ordine e definiamo cosa significa esattamente “slutshaming”. Il termine è l’unione delle parole inglesi “slut” (puttana, troia, zoccola) e “shame” (vergogna, umiliazione), e indica l’atto di denigrare verbalmente una ragazza, solitamente per il modo di vestire o per le proprie abitudini sessuali. Data la natura del cosplay, ci concentreremo sul primo aspetto, lasciando fuori quello più personale che però, ci tengo a sottolineare, non dovrebbe mai venire utilizzato come scusa per insultare qualcuno.

Ora che abbiamo dato una definizione più precisa del termine, vediamo come questa terribile forma di bullismo viene declinata, sempre più di frequente, all’interno della comunità dei cosplayer.

Il problema non sono le “Patreon Girls”

Secondo alcuni, questo sarebbe dovuto in primis al moltiplicarsi delle cosiddette Patreon Girls, ovvero cosplayer che per finanziarsi utilizzano strumenti di raccolta fondi come Patreon (o Ko-Fi o il più recente OnlyFans), dove i loro followers possono donare piccole somme mensili per sostenerle. Vedremo fra poco come affermare una cosa del genere sia assolutamente falso e, anzi, sia parte del problema. Ancora un volta, è importante sottolineare come questo non sia un discorso esclusivamente al femminile, sebbene la maggioranza dei cosplayer che fanno uso di questi meccanismi di finanziamento sia composta da ragazze.

Il successo di molte Patreon Girls, a cominciare dalla celebrità americana Jessica Nigri, ha scaturito un’ondata di odio da parte di molti utenti della rete e frequentatori di convention di cultura pop, compresi numerosi cosplayer.

jessica nigri

Analizzando i commenti di questi hater in giro per i vari social network, non è difficile identificare un elemento comune proprio nello slutshaming. Attaccandosi al fatto che parecchie Patreon Girls (ma non tutte) producono contenuti erotici come foto in lingerie, nudo e versioni sexy di decine di personaggi, i leoni da tastiera sembrano sentirsi autorizzati a dare il peggio di loro stessi. Non solo, a fianco di chi insulta c’è anche chi pensa bene di potersi permettere di inviare messaggi privati con foto delle proprie parti intime o richieste piuttosto esplicite di favori sessuali di vario genere, cosa che ricordiamoci, costituisce reato di molestia sessuale. Davanti all’ovvio rifiuto, scatta un meccanismo malato per cui la ragazza diviene automaticamente “una zoccola” e, spesso, anche “cessa.”

A questo punto qualcuno potrebbe pensare che, in fondo, chi colpevolizza queste ragazze non abbia tutti i torti. Dopotutto, sono loro a scegliere di “spogliarsi per soldi”, giusto? No, sbagliato.

Dopo lo Slutshaming, il victim blaming: perché va combattuto

Veniamo ad un altro punto della nostra analisi, legato a doppio filo allo slutshaming: il victim blaming. Quando si subiscono insulti continui, o addirittura si arriva alla molestia, molte vittime vengono, appunto, colpevolizzate.
“Se pubblichi foto simili, cosa ti aspetti?”
Oppure: “Se ti vesti così, è normale che poi ricevi certi commenti.”
O il classico, agghiacciante: “Te la sei cercata.”

Nel thread su Cosplay Universe c’è stato addirittura chi è arrivato ad accusare le ragazze che fanno cosplay “troppo scoperti” di urtare la sensibilità “di noi maschietti”, come se gli uomini non fossero in grado di resistere alle proprie pulsioni sessuali davanti al corpo femminile.

Questo genere di logica, ricade dritta dritta nella cornice della cosiddetta cultura dello stupro, spesso rappresentata come una piramide alla cui base ci sono comportamenti apparentemente più innocui, ma che pongono le fondamenta culturali per la giustificazione della sottomissione sistematica della donna nella società. Ma ci torneremo fra un momento.

cultura dello stupro

Slutshaming nel cosplay: chi sono le vittime?

Adesso è importante evidenziare come lo slutshaming nell’ambiente cosplay non si limiti affatto a quelle cosplayer che amano cimentarsi nel boudoir o nel nudo artistico. A subire questi insulti sono anche persone che si divertono a creare la versione femminile di un personaggio nato come maschile (genderbend) o quella umanizzata di Pokèmon e altre creature analoghe (gijinka), ree di aver “sessualizzato” il videogioco o anime originale. Non solo, anche riprodurre costumi in maniera del tutto fedele al design ufficiale non sembra essere sufficiente per mettersi a riparo dagli haters: basta una scollatura troppo pronunciata, un pantaloncino o una gonna troppo corti, e si diventa automaticamente zoccole, troie o, nel migliore dei casi, “persone con un disperato bisogno di attenzioni”.

Mi sono trovato io stesso a chiedere a un utente che sosteneva posizioni di questo tipo quale fosse il limite. Quanto dev’essere alto il colletto per non passare per donne di facili costumi? E la gonna va bene sotto il ginocchio o deve coprire i piedi?

Ciò che emerge è qualcosa che chiunque sia un minimo ferrato in studi di genere sa già: non è il vestiario il problema. Esattamente come non è il vestiario ad attirare le molestie, all’interno delle fiere del fumetto come in qualsiasi altro luogo. Ogni cosplayer, come ogni donna, dovrebbe poter essere libera di vestire nella maniera che preferisce, senza doversi sentire denigrata o, peggio ancora, in pericolo (come vi abbiamo raccontato qui). Chi decide di utilizzare piattaforme come Patreon e monetizzare sulla propria passione ha la stessa dignità di qualunque altro essere umano e merita lo stesso rispetto. Chi fa foto in intimo o di nudo non lo fa per un patologico bisogno di attenzioni o di mettersi in mostra. Ognuno ha le sue proprie motivazioni, spesso molto personali, e nessuno ha il diritto di metterle in dubbio o negarle.

E i carnefici?

Mi raccomando, attenzione a non cadere nell’errore di ridurre tutto questo a una netta linea di demarcazione basata sul genere. Se è vero che le vittime sono soprattutto ragazze, la distribuzione dei carnefici è molto più omogenea. Sono moltissime, infatti, le donne che si lanciano in crociate di puro odio contro le cosplayer che osano “tirare fuori troppo la coscia”. E quando qualcuna prova a parlare pubblicamente di eventuali molestie subite in fiera, fra coloro che chiedono: “Com’eri vestita?” o che tentano in ogni modo di mettere in dubbio le sue parole, non mancano certo altre ragazze. Emblematico è il caso del 2018, con un fotografo accusato di aver palpeggiato una cosplayer durante il Festival del Fumetto di Novegro che ha fatto discutere a lungo e di cui abbiamo parlato anche sul Bosone.

Credits: Jessica Nigri Ph: Paul Hillier

La campagna “Cosplay is not Consent”

Qual è, dunque, l’origine e la causa di tutto questo? E’ importante farsi questa domanda, per poter contrastare un fenomeno sempre più diffuso all’interno non solo del mondo del cosplay ma di tutta la comunità nerd. La risposta più ovvia e diretta è che si tratti di un’espressione di qualcosa che non è limitato al nostro ambiente, ma trasversale a tutta la società: il maschilismo, la misoginia interiorizzata tipica della nostra cultura fortemente patriarcale.

Ma se da un lato questo è innegabile, dall’altro ci troviamo di fronte alla diffusione di un’idea piuttosto pericolosa: quella che essere in cosplay equivalga a diventare, letteralmente, degli oggetti. Oggetti che possono essere toccati, criticati, insultati, senza alcuna conseguenza. Moltissima gente dimentica che dietro al costume, dietro alla foto, c’è prima di tutto una persona. E che l’indossare i panni di un personaggio dei fumetti o dei videogiochi non ci rende in automatico persone a caccia di attenzioni di qualsiasi genere.

Per questa ragione, campagne come Cosplay is not Consent (di cui parlavamo qui), lanciata per la prima volta nei grandi Comic Con americani, sono così importanti. Con sempre più persone che cominciano a frequentare le fiere e a seguire i cosplayer sui social, è necessaria un’educazione sistematica che ci permetta di vivere la nostra passione in libertà e senza temere continue ripercussioni.

Eccoci giunti alla fine. Se avete avuto esperienze che volete condividere, se avete qualcosa da aggiungere, se vi è piaciuto l’articolo e volete parlarne, sentitevi liber* di farlo nei commenti.

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